Lusso e unicità delle opere digitali nell’era della blockchain

Lusso e unicità delle opere digitali nell’era della blockchain

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Jack Millard

Continua a leggere, perché il titolo potrebbe non darti stimoli sufficienti per approfondire una tematica che, invece, rischia di essere tra le principali della rivoluzione per tutti i settore dell’arte, della creatività, ma anche del valore (monetizzatile) e della tracciabilità di qualsiasi “manufatto digitale”. Un tema che, inevitabilmente, si affaccia prepotentemente su tutti quegli ambiti che sono stati messi in discussione proprio dalle tecnologie digitali, negli ultimi decenni.

Cerchiamo di analizzare insieme la tematica: l’arte, ma anche il diritto d’autore, ha subito un brutto colpo con l’evoluzione dei sistemi della riproducibilità: a ben dirlo, la stessa fotografia, bene per sua natura riproducibile all’infinito partendo da una matrice originale (negativo) ha dato un colpo duro al valore dell’opera d’arte che per sua natura, se riproducibile, perde valore. Poi è arrivato il digitale che ha reso sostanzialmente non solo semplice ed incontrollabile la copia, ma anche la sua duplicazione totalmente identica al suo originale, non esiste più il concetto di “originale digitale”. Qualcuno ha cercato di parlare di “RAW” come un “negativo digitale”, ma questo non ha una concretezza reale dal punto di vista legale e ancor meno da quello del valore economico: non si compra un’opera acquisendo il “possesso” del RAW, qualcuno lo ha anche proposto, ma è ridicolo (ricordo che Canon aveva proposto un sistema per validare l’originalità di un formato RAW), perché il vero valore di una immagine è nel suo “sviluppo” e poi i dati di un RAW sono facilmente manipolabili (così, per esempio con questa soluzione). E anche i sistemi che erano nati per proteggere e tutelare le immagini (qualcuno, con i capelli grigi, potrebbe ricordarsi il sistema Digimark, che pur ancora esiste come plug-in di Photoshop, potete approfondire qui), ma sistemi come questi, oltre ad non essere particolarmente robusti, hanno una missione di poter riconoscere la paternità di un’opera, non di gestire il suo valore economico di compravendita e non è un elemento che ne definisce la proprietà (se non quella intellettuale).

Si è cercato di trasformare quindi il valore dell’opera attraverso la sua stampa, usando anche soluzioni come – forse la più famosa – lo standard Digigraphie, proposto da Epson, che però, ancora una volta, si propone di certificare stampe che possiedono un certificato di autenticità e di garanzia, non è un registro pubblico che dichiara a chi appartiene quella stampa, e di fatto neanche ne definisce pubblicamente il suo valore. In più, fa sinceramente un po’ sorridere che una tecnica “riproducibile”, come la stampa possa essere affiancata all’opera artistica e unica… perché di fatto la stampa è il frutto di un processo riproducibile, e se è vero che anche le stampe hanno un valore nel mercato dell’arte, concretamente il fatto che esistano copie tutte identiche porta ad un valore deprezzato e poi servirebbe una prova che, dopo la dichiarata tiratura che ne attesta il valore singolo di ogni stampa (1 di 50, per esempio), l’originale sia stato distrutto, e come si fa a certificarlo, anche se platealmente si potrebbe pensare ad un video che mostra come l’originale digitale sia stato “buttato nel cestino”? (Spazio per sorridere insieme…).

Arriva la Blockchain e non ho niente da metterCi?

Giocando con le parole della famosa citazione di Umberto Simonetta, il concetto è che non si tratta di “qualcosa da indossare – metterSi – quando arriva la rivoluzione”, ma qualcosa da “metterCi” dentro questa rivoluzione: parliamo, ci siamo arrivati, della blockchain, parola tanto di moda e così poco compresa, specialmente da quelli che dovrebbero capirci… Noi ne abbiamo parlato un po’ più di un anno fa qui: Criptovalute, economia, informazione: siamo protagonisti o pedine del futuro? – e come sempre consigliamo ai nostri amici che ci seguono a volte di tornare indietro a leggere quello che scriviamo, perché forse dopo un anno o due le cose apparentemente “prive di senso” di colpo diventano contemporanee. Come in questo caso…. Kodak ci aveva pensato, ci sta pensando anche se non sappiamo se si è trattato di un annuncio ad effetto, oppure se davvero si sta sviluppando concretamente (dicono che a giugno 2019 il progetto diventerà esecutivo). Nel frattempo, però, mentre i “giganti” ci pensano, i piccoli imprenditori ci pensano molto concretamente, e anche in Italia. In due parole, nel caso non sia del tutto chiaro (immaginiamo che sia così), una blockchain è un registro digitale aperto e distribuito, in grado di memorizzare dati in modo sicuro, verificabile e permanente. Una volta scritti, i dati in un blocco non possono essere retroattivamente alterati senza che vengano modificati tutti i blocchi successivi ad esso e ciò, per la natura del protocollo e dello schema di validazione, necessiterebbe del consenso della maggioranza della rete. La blockchain è quindi rappresentabile come una lista, in continua crescita, di blocchi collegati tra loro e resi sicuri mediante l’uso della crittografia. Per dirla con parole ancora più semplici, senza usare le definizioni di Wikipedia, si tratta di un sistema che rende tracciabile, sicuro, certificato e senza intermediari, ma direttamente dal network, un prodotto. Di colpo, sia un prodotto “fisico” (qui per esempio un articolo del Guardian che parla della filiera dei prodotti ittici) sia un bene digitale possono essere tracciati, se ne può avere una certezza di provenienza, di proprietà, di valore sul mercato. Si, lo stiamo spiegando in modo veloce, ma di fatto i concetti di base da comprendere sono questi, se volete potete documentarvi, magari più che leggendo “sull’Internet” puntando sulla lettura di qualche libro, come questo, che ha un costo molto ridotto, è stato pubblicato da poco ed ha un approccio abbastanza semplificato ed è stato pubblicato dalla Casaleggio Associati, oppure trattati più evoluti come questo, di Lorenzo Foti.

Venerdì, all’interno delle iniziative della Milano Digital Week, ho tenuto un Talk presso Naba (l’università dove sono docente da molti anni) che parlava di innovazioni digitali, e alla fine dell’incontro ho conosciuto una realtà davvero interessante, che mi ha subito stimolato il pensiero e un sacco di idee. Parlando con Norberto Rossi, uno dei fondatori, ho scoperto il progetto Bitmonds che si propone con due elementi di innovazione davvero notevoli: la prima è che propone una visione legata alla blockchain separata dalle criptovalute, ed è un approccio interessante. Di fatto, quando si parla di blockchain, si collega il valore di un bene ad una criptovaluta (Bitcoin ma non solo… sono ormai tantissime le valute di questo tipo, che non vengono più gestite da entità come le banche), che però generano sul mercato grandi dubbi – in gran parte per la mancanza di conoscenza, si ha paura di quello che non si conosce, ma in parte per la non chiara ancora stabilità e una mancanza di regolazioni: una paura che viene messa in evidenza dagli organi competenti in materia finanziaria, ma a volte bisogna anche capire che forse gli stessi “organi competenti” sono messi sotto potenziale scacco da queste nuove forme economiche creando anche potenziali (concreti?) conflitti di interesse. Bene, la soluzione trovata da questi “ragazzi” italiani, è stata quella di creare una piattaforma, forse unica nel suo genere, che usa la blockchain per acquistare beni digitali usando i normali sistemi di pagamento, Paypal o carta di credito. In pratica, in un momento confuso per il mercato di massa, si propone un modo “semplice” di entrare in un flusso blockchain senza il lato che appare “oscuro” agli utenti che non sono esperti o per quelli che vogliono rimanere al di fuori di possibili cripto-speculazioni. E’ chiaro che questa piattaforma può essere quindi adottabile per altri prodotti, ma quali sono i prodotti che Bitmonds propone? Ecco, viene ora il secondo lato originale….

Bitmonds diamanti blockchainBitmonds vende diamanti. Ma non diamanti veri, anche se la parola “vero” potrebbe essere usata in modo non corretto. Di fatto, sono oggetti “veri”, verissimi, ma sono digitali. E’ una rivoluzione perché di colpo un bene di lusso (come un Rolex, un Bulgari, un Picasso… o un iPhone) può esistere non nella sua forma fisica, ma nella sua “fisicità digitale”. Si guarda, si ammira, ma si tocca (sullo schermo), è digitale, ma al tempo stesso certificato nella sua unicità, nella sua provenienza, nel suo valore sul mercato, nella sua proprietà. Non è duplicabile, ma può essere regalato, comprato, venduto. E il registro delle transazioni blockchain ne verificherà tutti i passi, tutte le evoluzioni, e anche la crescita del valore nel tempo. Ma come fa a “crescere” il valore di un bene digitale? Tempo di generazione (i diamanti generati mesi fa hanno un valore sul mercato maggiore), ma anche perché la generazione delle caratteristiche – che sono uniche, ogni diamante è diverso dall’altro, nessuno è una copia – avviene in modalità random, esattamente come succede con i diamanti veri. Si generano quindi diamanti con particolari colorazioni, che possono essere più o meno appetibili, ma anche in termini di purezza ogni diamante può essere più o meno puro. Il costo iniziale è identico, la casualità, l’integrazione tra i dati generati random e i dati del suo proprietario si miscelano e creano unicità e valore differente. Esattamente come un’opera d’arte. Per fare un esempio, il mio “primo diamante”, acquistato il 15 marzo, oggi ha un valore che è cresciuto dello 0,38%, due giorni dopo. Chissà cosa varrà, tra un anno, tra cinque anni, tra dieci anni?

bitmonds blockchain diamanti
Ma, specialmente, cosa ce ne facciamo di un “diamante digitale”? Ovviamente lo si può condividere con gli amici, si può guardare vivendo l’emozione del guardare i mille riflessi di una gemma di valore di fronte alla luce e al “mondo” che lo circonda (sempre virtualmente), ma il prossimo step sarà quello del poterlo indossare: è in arrivo infatti un’app per gli smartwatch che permetterà di mettere in evidenza il proprio diamante come un gioiello, come un orologio di lusso, come un’opera dell’arte digitale.

Ma, visto che stiamo parlando a dei creatori di immagini, vogliamo fare un’ulteriore considerazione: di fatto, il diamante digitale in questione è concretamente un’immagine interattiva: fatta di pixel, generata da un software 3D, che è stata generata da una serie di dati, in parte indicati da chi lo genera e lo acquista, e in parte random. Significa che se vogliamo uscire dalla metafora, di fatto più che di “diamante” si sta parlando di un file immagine… Non vi apre la mente a possibili mille interpretazioni? Parlando con Norberto Rossi e vedendo le future evoluzioni (sulle quali abbiamo anche discusso animatamente, integrando pensieri ed estrazioni culturali diverse, la sua tecnologica e marketing, quella del sottoscritto legata all’immagine) e il risultato è che i “puntini” che si uniscono prevedono e propongono possibili evoluzioni affascinanti: se si creano immagini interattive che diventano prodotti, allora… non siamo di fronte ad un nuovo possibile mercato che potrebbe essere sviluppato? Ne siamo sicuri, ancor più che quello che sta comunque esplodendo che sono i prodotti “fisici” realizzati con la stampa 3D, anch’essi realizzabili con logiche di iper personalizzazione (altro trend fondamentale nell’economia dei prossimi anni), ma in questo caso si parla di beni totalmente digitali.

Se volete, se lo ritenete utile, potreste togliervi lo sfizio, e uscite dal torpore dell’essere al di fuori – e magari guardare con diffidenza e anche con una grassa risata – questa idea, andate qui su Bitmonds e acquistare un vostro primo diamante (il costo è di 10 euro). Potreste scrivere: è la prima volta nella mia vita che compro un bene di lusso digitale, che lo posso possedere, e un domani potrei anche rivenderlo, oppure indossarlo. Ma se pensate di farlo, per divertimento o per strategia, non fatelo nemmeno per questo… fatelo, se volete, perché mentre giocherete con questo diamante sullo schermo del vostro smartphone o del vostro computer, potreste far “girare” la vostra mente per comprendere meglio i risvolti delle immagini che diventano prodotti, della sensazione di avere “tra le dita” un oggetto digitale e virtuale, ma anche di possederlo per avere la sensazione di qualcosa che può (deve) cambiare in questo mondo. E non certo perché i diamanti da soli possono cambiare il mondo e nemmeno perché, come cantava Marylin, sono i migliori amici delle ragazze…

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