Storie fotografiche, perché le raccontano gli influencer?

Storie fotografiche, perché le raccontano gli influencer?


Influencer
Marion Michele

Siamo circondati da “storie” che si materializzano tramite fotografie, video e che si pubblicano ovunque. Le aziende cercano di cavalcare questo percorso di “successo” comprando degli (spesso inefficienti) moderni spazi pubblicitari: si affidano – pagano profumatamente – agli “Influencer”, personaggi che non è detto che abbiano particolari doti, se non quelle di essere riusciti/e, in momenti più semplici, ad aggregare un gran numero di persone al loro seguito.

Beninteso, non abbiamo nulla contro queste nuove professioni, vorremmo solo che ci fosse un po’ più di serietà: di valutazione, e anche di responsabilità di chi si propone con un ruolo che sta guadagnando importanza nel panorama economico. Per darvi un’idea, un’influencer, a livello internazionale elevato (significa avere un’audience compreso tra 500 mila e 1 milione di utenti), può richiedere dai 5000 ai 10 mila euro per pubblicare un post che “parla” (o anche solo “mostra” un prodotto che interessa all’azienda che li ingaggia); in realtà, anche di più – molto – se la popolarità è superiore. Avendo lavorato, da sempre, in ambito editoriale, sappiamo bene cosa significa e quanto sia delicato il rapporto e la relazione tra “inserzionisti” (aziende che spendono in pubblicità) e contenuto da trasmettere ad un destinatario (lettore), e sappiamo bene che è un percorso che richiede/impone tanta etica, correttezza e serietà, per non far cadere il tutto in una bieca e opportunistica situazione basata su una compravendita di messaggi. La relazione di correttezza tra quello che si trasmette (informazione e/o dei contenuti) e chi accetta di riceverla sotto forma di informazione o, ancor di più, come opinione, è qualcosa che andrebbe garantito e tutelato, e questo non avviene purtroppo quasi mai, ormai, nemmeno negli organi di informazione più seri ed importanti, ma quello che ci da più fastidio è che questa etica nemmeno venga presa in considerazione da queste nuove leve, da questi nuovi “media”.

Perché parliamo di “etica”? Non si tratta forse di “pubblicità”? In realtà, il meccanismo legato a Instagram, Facebook, YouTube, che hanno generato personaggi pubblici (più o meno rilevanti, ma con un pubblico che in passato solo i “media tradizionali” si potevano permettere) ricorda quello che succedeva agli italiani nell’era di Carosello, quando si intrattenevano con messaggi e storie leggere e divertenti, e solo indirettamente – santa ingenuità – collegavano il fatto che quella fosse solo della “reclame”. Oggi siamo molto più “smart”, ma sono in tanti che, per esempio, reputano che la moderna libertà di espressione di blog e dei contenuti generati dagli utenti, l’apertura ai commenti possa avere creato una maggiore sincerità collettiva, che abbia contribuito alla distruzione di un “regime dell’informazione”. Quello che è cambiato è che gli “interessi” sono diventati più difficili da intuire, e ci sono così tanti meccanismi di interesse che non sono chiaramente percepiti dalla media degli utenti, non si capisce che è ancora più facile far cadere nelle trappole della falsa informazione o, peggio, della speculazione. Milioni di persone seguono personaggi che si propongono come “punti di riferimento” di una vita libera e spensierata, che vengono interpretati come modelli da seguire, e queste persone ricambiano tutto questa stima e fedeltà vendendo fans e “amici” come numeri da raggiungere da becere azioni di product placement o da “consigli per gli acquisti”, nascosti, non dichiarati, simulando naturalezza.

Se pensate che tutto questo potrà proseguire, vi sbagliate. I nuovi media creano sempre un periodo di ingenuità, ma poi gli utenti maturano e capiscono, e si allontanano, prendono coscienza. All’inizio cadono nelle trappole, ma poi imparano e diventano meno “utonti” e più “utenti maturi”. Ci sono i primi segni, di questa maturazione, specialmente nelle aziende. Macy’s, una delle grandi catene di grandi magazzini americane, ha di recente deciso di spostare l’asse della comunicazione su Instagram abbandonando gli influencer (che pur usava) e coinvolgendo i dipendenti dei vari/tanti punti vendita per realizzare contenuti e “storie” più sincere e “interne”: ne parla qui Glossy, un interessante sito a pagamento – ma alcuni articoli si possono leggere inizialmente gratis, quindi fatelo se volete – che tratta con grande approfondimento le tematiche di marketing nell’ambito retail e in generale della moda. In questo articolo si legge una delle principali motivazioni:

“The big rub on outside influencer marketing is they don’t get the brand. It’s like renting an audience when you can own one”

(“La fregatura degli influencer esterni è che non capiscono il brand. È come affittare un pubblico quando invece puoi possederne uno”)

La vendita di “spazi pubblicitari” senza valore e senza contenuto, semplicemente come numero, si estinguerà, e rimarranno (o ne nasceranno di nuovi) solo quelle realtà che lavorano sul valore di quello che si comunica, sia come “missione”, perché hanno “qualcosa di interessante da dire”, che come meccanismo per promuovere prodotti e/o servizi di aziende che desiderano affidarsi a queste realtà per il loro valore e capacità di coinvolgimento di un largo e selezionato pubblico. Altrimenti, le aziende faranno da sole, perché è sicuro che già da qualche anno…

Ogni azienda è, oggi, una “media company”

Vogliamo dire che, ormai, ogni azienda è in grado, o si attrezzerà, per creare i propri media, il proprio canale per avvicinare il proprio pubblico e per comunicare i propri prodotti e la propria filosofia. Gli intermediari spariranno, se non quelli di qualità, che faranno qualcosa che le aziende non riescono a fare con la stessa qualità o con la stessa efficacia.

Un altro aspetto, sempre di questa storia fatta di immagini (un party dove sembra che i professionisti dell’immagine non siano stati invitati) è che ormai ci si sta concentrando su tanti altri aspetti: dalla creazione di ambienti, occasioni e dettagli “instagram friendly”, storytelling nei negozi ad ampio e crescente contenuto digitale, facili per creare connessioni verso i canali social, sviluppi della comunicazione al fine della vendita dei prodotti on line. Tutte tendenze che fanno parte di una visione globale che ci auguriamo che possa essere di stimolo per chi vuole interpretare il mestiere del comunicare con le immagini in modo contemporaneo. Siamo molto vicini a partire con un percorso formativo su tutto questo, perché sentiamo l’esigenza di trasmettervi tanti contenuti e visioni innovative e – secondo noi – fondamentali. I professionisti dell’immagine e della comunicazione devono proporsi come soluzione di alto livello, non scimmiottando quello che sembra oggi funzionare, ma comprendendo che dietro ad una buona immagine ci deve essere una strategia, una visione, un ruolo che non è più “solo” descrittivo ed emozionale, ma molto di più.

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