Jumper

World Press Photo 2011 e argomenti affini…

Il vincitore del Word Press Photo  è lo spagnolo Samuel Aranda(Corbis), con un’immagine realizzata in Yemen il 15 ottobre di quest’anno e pubblicata su “The New York Times” (e qui riprodotta sul sito ufficiale del World Press Photos). Senza dubbio, non c’è da dirlo, un’immagine sensazionale, di fortissimo impatto e che riesce – come dovrebbe fare una fotografia – a raccontare una storia sintetizzandola e cristallizzandola in un’unico “frame” di una vita che scorre veloce.

Uso il termine “frame” proprio per introdurre un pensiero che è abbastanza attuale. Nell’ottica della rincorsa spasmodica che fa parte del nostro modo di informarci, di “vedere”, c’è spazio ancora per l’immagine “fissa”? Per un unico “frame” che sintetizza? Personalmente sono combattuto dal dire “Si, sicuramente”, perché la mia cultura (scarsissima) di base è legata alla fotografia, perché ho perseguito per anni questa ricerca, prima da “produttore” di immagini, e poi via via più da cronista e narratore di questo mondo meraviglioso. Dall’altra, se guardo realisticamente (e forse con un po’ di cinismo) la realtà dei fatti, mi accorgo (e spesso condivido con voi questi pensieri in questa rubrica) che è sempre più difficile trovare spazi per immagini “fisse”, per un approccio alla narrazione composto di un’unica immagine per descrivere una situazione, un’emozione. Il dubbio non è sulla potenzialità dell’immagine fotografica in quanto tale (figuratevi! Amo troppo la fotografia per crearmi un dubbio di questo tipo), ma sullo spazio “commerciale” per questo contenuto di valore. Scusate, non affronto mai tematiche di tipo artistico, non è che sono insensibile, ma sono abituato a crearmi il problema della “sopravvivenza”, ci sono fotografi che possono forse permettersi di fare questo lavoro senza guadagnare, e non provo invidia, semplicemente mi preoccupo per quelli che questa potenzialità non ce l’hanno (e sono la maggior parte), che vogliono occasioni per mostrare la loro qualità e sensibilità, ma che devono pagare le bollette e l’affitto con questo mestiere… e quindi tutti gli argomenti degli ambienti culturali diventano privi di senso: si deve fare qualcosa che possa dare soldi alla fine del mese, e non solo alimentare speranze prive di reale potenzialità. La domanda che mi pongo quindi non è “se è culturalmente e artisticamente” sensato produrre immagini fotografiche di qualità, ma se c’è qualcuno in grado di trasformarle in “soldi” e di conseguenza è disposto ad investirci soldi che giustificano lo sforzo di produrle.

Di sicuro, ci sono pubblicazioni ed editori che sanno come monetizzare ed enfatizzare questo contenuto meraviglioso. Sono le realtà ben conosciute, purtroppo nessuna di queste “locale” (chi in Italia è disposto o ha la possibilità di investire le giuste cifre per avere immagini di altissimo valore?), ma deve essere di respiro internazionale. Il problema è che queste realtà hanno già collaboratori eccezionali, che non a caso sono quelli che poi vengono premiati per esempio al Word Press Photo (Pellegrin, Majoli, Zizola… eccetera), e nessuno può colpevolizzare queste scelte… diavolo, sono bravissimi, eccezionali, ma in questa eccezionalità hanno un vantaggio: loro sono in prima linea (letteralmente), ci si rivolge a loro per realizzare le cose migliori, i progetti più interessanti, le loro immagini (giustamente…. non sto criticando!) finiscono negli ambiti più prestigiosi, vengono viste, apprezzate, valorizzate. Togliamo quindi quelli che sono bravi, togliamo quelli che per qualche vantaggio di famiglia sono ricchi e hanno la possibilità di avere occasioni meravigliose (e ancora una volta… non si può essere invidiosi, se poi sono anche bravi!) e preoccupiamoci degli “altri” (che non necessariamente sono “meno bravi”, semplicemente hanno diverse – minori occasioni).

Che spazio c’è per “tutti gli altri”, che poi sono in gran parte i nostri lettori? Persone con molta passione, che combattono ogni giorno per riuscire ad uscire dall’anonimato, che devono alla fine del mese pagare il supermercato e la retta di scuola del proprio figlio (o la propria retta, se sono giovani… perché ci sono i giovani che oltre ad essere impreparati ancora dal punto di vista professionale, sono ancora in una fase della vita in cui non sanno come si “gioca” dal punto di vista dei rapporti lavorativi, dal punto di vista degli investimenti in attrezzatura, che devono pagare ancora scuole spesso troppo costose per quello che offrono). Se non ci sono committenti in grado (per incapacità, per mancanza di visione o per mancanza di fondi) di pagare prodotti di valore, se non ci sono utenti sul mercato locale che possono avere interesse a qualcosa che vada oltre al sedere di Belen Rodriguez o alla sniffata di coca da parte del calciatore di turno (veri top sellers di un’editoria fatta di gossip e non certo di cultura visuale e di capacità narrativa), cosa rimane?

Sarebbe facile dire: lasciamo perdere, occupiamoci di nuovi mercati. Abbiamo a volte consigliato strade quali la vendita di panini caldi (un bestseller su cui possiamo fornire buone garanzie di sopravvivenza), ma dobbiamo al tempo stesso cercare di proseguire sulla irta strada della professione del fotografo, visto che la maggior parte di voi (noi) dicono che non hanno intenzione di cambiare mestiere e se ricominciassero oggi vorrebbero comunque rifare la stessa scelta (Fonte: Censimento di Jumper, che presto pubblicheremo). Una voce rilevante (non la nostra, spesso accusata di una visione “parziale”), è quella del fotoreporter multipremiato Dan Chung che in un’intervista esclusiva a DPReview dice che “non c’è futuro per il fotogiornalismo. La sua opinione, che abbiamo condiviso in tanti Sunday Jumper (spesso criticati), è la seguente:

‘I don’t really see a future in photojournalism, if I’m completely honest, as a way to earn a living. But also there are a lot of creative opportunities with moving images that you couldn’t possibly dream of doing with stills. I’m surprised though that relatively few other photographers have made that conversion.’

(Io non vedo proprio un futuro per il fotogiornalismo, ad essere completamente onesto, come professione con cui guadagnarsi da vivere. Al tempo stesso, ci sono un sacco di opportunità creative con le immagini in movimento, cose che non vi sognereste nemmeno di fare con le immagini “fisse”. Sono sorpreso che relativamente pochi fotografi si sono mossi verso questa conversione).

Diavolo, lo dicevamo due anni fa, lo abbiamo ripetuto in ogni occasione, abbiamo cercato di avvicinarvi al mondo dell’editoria digitale come strumento di self publishing (dove nessuno vi può dire che il vostro prodotto non vende, solo – semmai – il mercato). Abbiamo ottenuto risultati, incredibili, ma molti ancora non hanno immaginato che questo potrebbe essere un modo per trovare nuove strade. Non solo creative, ma specialmente remunerative. Ora non lo diciamo noi, lo dice un vostro collega, uno che lavora per importanti editori, che guadagna con questa attività e che dice:

The way I look at it is convert or die.

Serve la traduzione? Il concetto suo è  Non era questione di scelta: o ci si convertiva, o si moriva.

Inutile dire che nei commenti di questo articolo ci sono molte polemiche, come quelle che ci aspettiamo anche qui. Si toccano tasti che fanno male, l’orgoglio e la visione di un mestiere (così come l’abbiamo conosciuto) fa venire fuori rabbia e polemica. Ma bisogna essere ragionevoli, se non si ha modo di avere qualità e contatti come quelli dei grandi nomi che vincono il World Press Photo, che pubblicano sulle riviste e sui media più importanti, allora bisogna essere concreti. Ci saranno molte più possibilità di proporre contenuti “multimediali” (lo stesso WPP ha aperto la sua sezione Multimedia, il 15 marzo verranno annunciati i premiati, e la giuria è presieduta da Vincent Laforet, da noi intervistato in esclusiva su JPM Magazine otto mesi fa). Persone che bisogna conoscere, capire, “copiare” nei loro atteggiamenti e nel loro modo di proporsi.

Nel frattempo, noi come sempre preferiamo farefarefare e non dirediredire, e abbiamo lanciato il primo libro della collana “JumperBooks“, nata in collaborazione con i nostri amici di Simplicissimus per far incontrare il mondo della fotografia e del fotogiornalismo, con le nuove tecnologie non solo di produzione, ma anche di distribuzione. Lo avevamo annunciato e raccontato su JPM3, e ora l’iniziativa si è materializzata: si tratta del libro WGR Project, nato dalla mente di due giovani ragazze toscane, Agnese Morganti e Malia Zheng, che hanno voluto raccontare una storia interessantissima, quella della vita, dei sogni e delle attività di ragazzi cinesi di seconda generazione, quelli che sono agli occhi di tutti “cinesi”, ma che sono italiani, nati in Italia e che vivono una realtà davvero particolare. Abbiamo spinto queste due ragazze a creare non un “classico” libro (che probabilmente nessuno avrebbe avuto modo di produrre, o investire, e che avrebbe abbattuto alberi e creato polvere negli scaffali delle librerie), ma un libro digitale, interattivo, “movimentato”, dinamico, sonoro. Lo abbiamo realizzato insieme usando le stesse tecnologie di JPM Magazine, ed è uscito qualche giorno fa (anche se alcune storie sono ancora in produzione, il libro verrà aggiornato a breve, gratuitamente per tutti coloro che l’avranno scaricato ovviamente!). E’ visibile, acquistabile, in tutto il mondo, e ha già a creato interesse (pensate: NBC ne parlerà a breve in un documentario). Agnese e Malia sono giovani, poco più che ventenni, ma hanno superato in un solo colpo tante tappe, e ora sarà il mercato a giudicare, a proporre, a dare risposte. Forse un giorno arriveranno al WPP anche loro, sono state “pubblicate”, avranno la loro visibilità, la loro occasione. Andate su Appstore e scaricatelo (ok, serve un iPad… vi abbiamo detto sempre che è uno strumento utile al vostro lavoro, e anche al vostro business. Si prende con 30 euro al mese, connessione compresa…), il libro costa 4,99 euro (un libro di fotogiornalismo con foto, video, storie, audio e bei contenuti… ad una cifra del genere? Li vale, no?) e si scarica da qui. Qui sotto invece, il trailer del libro (in italiano, il libro ovviamente, è anche in inglese):

Bisogna credere al fatto che il futuro offre tante possibilità, ma dobbiamo essere in grado di scoprirle. Noi stiamo cercando di aiutare tutti, ma tutti si devono aiutare anche da soli. Per esempio, il 23 febbraio faremo un workshop per imparare (e creare) pubblicazioni digitali. Secondo noi è un buon modo per recuperare il terreno perso o per crescere in questa attività. Fateci un pensierino, forse sarà la cosa migliore che potreste fare per voi e per il vostro futuro.