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Social network, tra ignoranti e saputelli, quello che si perde è più di quello che si guadagna?

Un gran numero di persone che usano la rete, di fatto non la conoscono affatto. O non abbastanza, non quanto sarebbe necessario. In Italia, poi, ci sono tipicamente due atteggiamenti predominanti: coloro che sanno di non sapere, e per questo tengono a deprezzare, a preoccuparsi eccessivamente, ad addittarla come un grave pericolo (per esempio: le discussioni dei giorni scorsi in relazione alla delibera dell’AGCom mi trovano totalmente d’accordo con l’articolo di Paolo Attivissimo pubblicato qui), la seconda categoria invece è di quelli che pensano di sapere e agiscono sulla base di questa teorica certezza.

Non so di quali di queste categorie ho più paura: probabilmente di entrambe. Ho il terrore dell’ignoranza, da sempre: il mio primo datore di lavoro, una persona eccezionale (ciao, Carlo!) mi disse un giorno che si capiva che non sopportavo le persone ignoranti e stupide, che il mio atteggiamento si modificava di colpo, diventavo antipatico e scontroso. Mi diede un consiglio, che cerco di ricordare sempre: “Ricordati che al mondo ci sono più persone stupide che intelligenti, devi imparare a relazionarti con loro perché sono troppi, non puoi sconfiggerli“. Lo so, ma è difficile, è proprio un mio limite: la stupidità e l’ignoranza ancor di più (si può nascere con dei limiti, ma apprendere dovrebbe essere un dovere…) mi trasformano e mi fanno tirare fuori i miei lati peggiori.

Che dire, però, delle persone che pensano di sapere? Sono altrettanto pericolosi, si muovono come elefanti nei negozi di cristalli, creano danni (spesso a loro stessi) e non se ne accorgono nemmeno a distanza di tempo. Quelle che fanno uso della potenza della rete con leggerezza, che non si fanno domande, ma dispensano risposte ed emettono sentenze: così si fa, così è giusto, così è sbagliato.

Personalmente, cerco (pur non essendo senza difetti) di essere un ignorante che cerca di capire, che prova e cerca di farsi un’opionione procedendo con i fatti e non solo con le parole. E, per professione, cerco di collegare quello che vivo e che sperimento al mondo che vivo e con il quale mi relaziono: quello dell’immagine. Da qualche giorno è arrivato il nuovo servizio di social network che si chiama Google+ e che si propone come antagonista, alternativa, nuova visione rispetto a Facebook: ne avrete sentito parlare, qualcuno avrà anche ricevuto un invito (è ancora in beta, quindi bisogna essere invitati per poterne farne parte), concettualmente propone una visione più “sensata” nella gestione degli “amici”, perché prevede delle zone (Circles) dove aggregare e dove condividere alcune amicizie, rapporti e informazioni; un po’ come ad una festa di matrimonio, ci sono gruppi di persone che si conoscono e che condividono alcuni interessi che nulla hanno a che fare con altri. Ci sono confidenze che si fanno con alcuni e non con altri: è assolutamente naturale, nella vita “reale” e anche in quella digitale: a volte ci sono confidenze che riguardano un “altro amico”, e come dirlo se anche lui ci segue? Google+ è un passo in avanti nel mondo dei social network, mantiene e amplia i lati positivi di Facebook limitandone i suoi “danni“, e sostanzialmente si propone come una soluzione che ha maggiormente a cuore la privacy degli utenti. Ma non è esente da elementi che possono/debbono/dovrebbero essere ottimizzati. Non siamo qui a fare filosofia e a parlare in astratto, ma caliamo subito la nostra dissertazione sull’uso delle immagini.

Siamo stufi di dire ai nostri convegni quanto sia rischioso, per un fotografo professionista, ma in generale per chi è sensibile all’uso delle proprie immagini in rete, accettare le clausole imposte da Facebook, che sostanzialmente dice che – per motivi tecnici intrisechi alla condivisione dei contenuti che gli utenti postano – è necessario accettare che gli stessi utenti concedano a Facebook di avere il diritto di archiviazione di tali contenuti sui loro server e “in modo allargato” anche di poterli distribuire su qualsiasi mezzo, media o finalità. Nella pratica, questo “tecnicismo” (legale, più che informatico) concede a Facebook di fare “in linea di principio” ciò che vuole di tutto quello che noi postiamo. Noi abbiamo il diritto a pubblicare e condividere “gratis” tutto quello che vogliamo, Facebook ha il diritto di “farne tutto quello che vuole“. Per questo, il consiglio che diamo – quando si tratta di immagini di valore, ma anche solo per rispettare la privacy di persone che fotografiamo – di ridurre al minimo questo rischio non pubblicando direttamente tali immagini, ma postarle in uno spazio web di nostra proprietà (per esempio, il nostro sito internet) e poi se proprio vogliamo condividerle pubblicare il link e non le immagini (che comunque quantomeno nell’anteprima vengono “mangiate” da Facebook).

Malgrado questo sia un argomento discusso ampiamente, e ovviamente non solo da noi, un numero impressionante di fotografi non percepisce il pericolo e nemmeno un senso di fastidio in questa attribuzione e potere sulle immagini che postiamo online.  In pratica “regaliamo” e concediamo la “custodia” delle nostre immagini ad una realtà che è in grado di distribuirla (teoricamente, ovviamente) ad oltre 500 milioni di utenti e che noi magari pensiamo di poter condividere solo con i nostri amici più intimi.

Oggi, abbiamo “un’alternativa” a Facebook che appunto si chiama Google+, e magari qualcuno avrà pensato che questa maggiore sensibilità per la privacy, tanto dichiarata dal gigante dei motori di ricerca (che ancora sta cercando una sua proposta nell’ambito del social network davvero efficiente, dopo vari tentativi andati in fumo, in particolare con il maggiore flop degli ultimi anni, Buzz), possa dare maggiore sicurezza. Vale la pena, per partire con il piede giusto, andare a leggere (ve l’abbiamo tradotta, per poterla valutare con maggiore accuratezza) quali sono le policy relative a tutto quello che pubblichiamo su Google+ e che dobbiamo firmare per potervi accedere):

Dichiari di acconsentire che questa licenza include il diritto per Google di rendere questo contenuto disponibile ad altre compagnie, organizzazioni o individui con cui Google ha rapporti per la fornitura di servizi “syndicated(letteralmente sarebbe “distribuiti con un’agenzia stampa”… potrebbe essere un semplice rss ndt), e di usare questo contenuto in connessione con la fornitura di queste servizi.

Dichiari di comprendere che Google, nel compiere gli step tecnologici richiesti per fornire i servizi ai nostri utenti, può a) trasmettere o distribuire il tuo contenuto in vari network pubblici e in vari media; e b) apportare al tuo contenuto le modifiche necessarie per rendere il contenuto conforme e adattarlo alle necessità tecniche dei network collegati, i device, servizi o media. Dichiari di accettare che questa licenza permetta a Google queste azioni.

Insomma, la “solfa” non cambia (o cambia poco), e questo desta preoccupazione perché all’interno di Google+ confluiranno due dei servizi di “pubblicazione” più comuni ed usati da Google: Blogger (piattaforma di blog) e Picasa (piattaforma per lo sharing di fotografie). Noi siamo convinti che oggi i social network siano fondamentali per una corretta presenza sul web, per la propria promozione, per allargarne la propria visibilità, per imparare a comunicare con persone che non conosciamo, ma che possono rappresentare una grande forza anche per la nostra crescita (professionale e umana) non possa non fare uso dei social network. Il problema è che si tratta di un’arma potente, che usiamo senza studiarne i vari risvolti, senza comprenderne i meccanismi, senza valutare come proporci senza subirne le conseguenze negativa. Non può esistere nessun prodotto, nessun mezzo di comunicazione, di informazione o di creazione che oggi possa fare a meno dei social network, ma non possiamo affidarci a questi circuiti senza prima affrontarli dal punto di vista culturale. E, specialmente senza quell’atteggiamento che abbiamo citato all’inizio: rigettare per ignoranza, o essere sicuri di sapere, quando siamo tutti ancora dei bambini in  fasce in questo mondo digitale,