Jumper

Una pin-up ventenne chiamata Photoshop


Questa “pin-up” l’ho vista nascere
. Letteralmente. Prima di tutto, va detto che la chiamo “pin-up” perché se c’è qualcosa che meglio interpreta il concetto di pin-up è quel trucco, quell’effetto speciale che “rende speciali”, quel sapiente uso di interventi per “rigonfiare” le curve nei punti giusti, che ama la fotografia (specialmente quando è davanti all’obiettivo, e sorride maliziosa) è proprio questa ventenne, pronta a festeggiare il suo compleanno in questi giorni. Stiamo parlando di Photoshop, già… proprio quel software meraviglioso che il 10 febbraio del 1990 ha visto la luce (da qualche parte ho trovato come data di “nascita” il 18 febbraio, ma poco conta una settimana di differenza). Come tutti i bambini, quando è nata, ha portato sorrisi e lacrime (di emozione, ma anche di preoccupazione: ha trasformato molto, nella professione dei fotografi, occupando anche molti spazi), e come tutti i bambini è cresciuta velocemente: ha imparato a leggere, a scrivere ed ha imparato moltissimo. E’ nata in una culla all’epoca meravigliosa, un Mac: agli esordi, esisteva solo per questa piattaforma, e fu necessario attendere la versione 2.5 (alla fine del 1992) per vedere la prima versione Windows.

La versione 1.0, lo ammetto, non l’ho mai usata e nemmeno vista, ma forse sono stati in pochi ad avere questo privilegio. Ho messo le mani, però, sulla versione 1.07, che è quella che di fatto è stata la prima. All’epoca ero molto (più) incapace, ma c’era in redazione dove lavoravo – e scrivevo di fotografia, e già cercavo di capire come la fotografia si potesse interfacciare con i computer – c’era un genio. Lui – Gabriele Dardanoni – si occupava di una rivista dedicata al mercato della nautica, ma la sua altra passione era il Mac. Impaginava questa rivista, molto semplice dal punto di vista grafico, con un Mac (forse un MacPlus), e io perdevo le mie ore libere a guardarlo lavorare, a scoprire come creare una rivista. Quando me lo permetteva, andavo con lui dal “service”, uno dei primi in Italia (Viappiani) dove ci facevamo realizzare le pellicole per la stampa. E succedeva di tutto, ho visto pagine uscire che non avevano alcuna attinenza con il file di partenza, e non sempre si capiva come mai.

Quando arrivò Photoshop, era normale lavorare su immagini bianco e nero: lo imponeva la potenza dei computer e lo imponeva la rivista, che era stampata in due colori: il nero, appunto, e l’azzurro (meglio dire cyan), ma solo per i titoli e la grafica. Le foto erano, quindi, a toni di grigio (anche perché, comunque, il supporto al CMYK è stato possibile solo con la versione 2.0). Ricordo le prime elaborazioni, molto semplici, ma queste magie per me avevano poco… di magico: all’epoca ero affascinato da macchine molto più potenti, in grado di fare impressionanti elaborazioni. Costavano miliardi, ma avevo la fortuna di poterle vedere all’opera, e le piccole cose che all’epoca era in grado di fare Photoshop mi sembravano giochi. C’era il fatto, è vero, che le macchine incredibili non si potevano toccare, solo guardare, e specialmente non si poteva chiedere di fare delle lavorazioni per noi, piccoli umani: il loro tempo e i loro operatori erano dedicati alle grandi campagne pubblicitarie, milionarie. Voglio dire che il primo cambiamento dei colori degli occhi di una ragazza (è storicamente la cosa che ha affascinato tutti, la prima volta… strano che è anche una delle cose più semplici!) l’ho visto su macchine diverse, non su Photoshop, ma di sicuro l’ho fatto per la prima volta proprio con Photoshop. E l’esperienza della vita ci conferma che vedere altri che fanno e fare noi, la prima volta, è tutta un’altra cosa.

Photoshop è nato, prima ancora che dai due fratelli Knoll, ben prima: è nato dal padre di questi ragazzi, che aveva una passione per la fotografia, e questa passione l’ha trasmessa anche a loro. Mio padre mi ha insegnato a stampare in bianco e nero all’età di 5 anni, Glenn Knoll però aveva anche interessi nell’ambito dell’elettronica e dei personal computer, e quindi ha dato qualche stimolo in più, evidentemente a Thomas e John (mio padre non ne sapeva nulla di computer, ahimè).

Non vado a leggere e trascrivere le tappe, come se fosse una tabella di marcia, rimango sui ricordi personali; a scrivere le date, ci penserà qualcuno, tra pochi giorni, che li elencherà copiandoli da qualche parte, non avendoli vissuti. Le cose entusiasmanti che ricordo, come se fossero ieri, sono state la versione 2.5.1 che è entrata nel cuore perché la prima che ho usato davvero, non solo nei ritagli liberi lasciati da altri, e poi la 3.0 con l’arrivo dei livelli, la 4.0 che mi ricordo in particolare per l’inserimento della tecnologia Digimarc per proteggere le foto… quante prove abbiamo fatto all’epoca per verificarne l’efficacia (filigrana invisibile all’occhio, ma in grado di essere rilevata e quindi in grado di riconoscere l’autore dell’immagine stessa, anche quando stampata… bastava scansionarla per rilevarne la traccia digitale contenuta tra i pixel). Questa versione – ci dissero all’epoca in conferenza stampa – aveva una funzione che era stata studiata “proprio per gli amici di Jump” (Jump era la nostra rivista, cartacea, dalla quale è nato questo sito). La battuta non nascondeva una conoscenza profonda del nostro modo di lavorare: Jump era fatta tutta sostanzialmente dal sottoscritto, grafica e impaginazione compresa, e quindi in Adobe sapevano bene che si tirava spesso l’alba per chiudere il numero da mandare in stampa: le azioni (questa la funzionalità “dedicata” a noi) consentiva di automatizzare un po’ di cose e quindi… farci risparmiare tempo. Ancora oggi lo ricordo con simpatia: tutti i giornalisti, tendenzialmente saputelli e snob, si sono girati verso di noi, non comprendendo nulla, se non l’affinità che c’era tra di noi.

Ho visto passare come saette potenziali concorrenti di Photoshop, nell’ambito del desktop publishing. Credo che nessuno possa ricordarsi il tentativo di Quark (quella di XPress) di competere con un software chiamato Xposure, uscito tra il 1995 e il 1996. Non so se qualcuno l’ha comprato, di sicuro è sparito come e peggio dei personaggi della trasmissione “Meteore“. Un successo superiore l’ha avuto, ma per poco, LivePicture (qualcuno lo ricorda?) che aveva un grande vantaggio: poteva lavorare a monitor con una rappresentazione “leggera” rispetto al file originale, che andava a richiamare solo i pixel dell’ingrandimento necessario per l’area di visualizzazione, consentendo quindi delle elaborazioni veloci che richiedevano però, alla fine, una fase di rendering. All’epoca – era il 1995 – si parlava di una cifra attorno agli 8 milioni, e Jump aveva lanciato una gara, che poi abbiamo pubblicato, confrontando una stessa elaborazione complessa con Photoshop (3.0), LivePicture e Dicomed Imaginator (altra… leggenda scomparsa). Il risultato, usando su ogni sistema un operatore esperto, portava alla vittoria l’Imaginator, che però costava una cifra attorno ai 30 milioni tra hardware e software, ma Photoshop si era dimostrato più performante e potente, nella sua globalità, rispetto al ben più costoso e “blasonato” LivePicture. Il distributore non apprezzò: in Italia, dire la verità genera tensione e arrabbiature, per fortuna che abbiamo continuato a fare il nostro lavoro lo stesso, e allo stesso modo. Altre “meteore”, il sistema Kodak Premier, basato su stazione Sun, in Italia l’hanno comprata in pochi (tra cui l’amico Stefano Muscetti, che ne ha tirato fuori ottimi lavori). Ma poi, la strada è rimasta libera solo per lui… per Photoshop, che è diventato sempre più potente, flessibile, enorme, per certi versi inavvicinabile. Ha strizzato l’occhio a mondi paralleli: medicale, scientifico, architettonico, e più di recentemente 3D, Video.

Siamo arrivati a festeggiare i suoi 20 anni, i 20 anni di Photoshop (e qualcuno parla ancora di “futuro” del digitale). Tutti noi dovremmo soffiare sulle candeline della sua torta (a vari livelli… come i files PSD), perché ha davvero rivoluzionato non solo il nostro modo di produrre fotografie, ma anche l’estetica e la cultura dell’immagine. Non voglio fare discorsi comparativi tra l’era “prima” e “dopo” Photoshop, ma di sicuro – appassionati o critici – esiste un prima e un dopo, e questo lo possiamo assimilare ad eventi fondamentali come il passaggio tra bianconero e colore, tra analogico e digitale. Sarebbe bello, in questa epoca di festeggiamenti, essere capaci di guardare indietro, per capire davvero quello che è successo, non solo brindare al presente: se oggi chiunque, fermato per strada, conosce Photoshop e usa questo nome come sinonimo di “elaborazione digitale”, vuol dire che la storia scritta conta. Fare un percorso all’indietro, cercando di identificare non solo i percorsi tecnici (quelli che vi verranno citati fino alla nausea), ma il cambiamento epocale nella trasformazione dell’immagine, capire come si facevano le “elaborazioni” e i “fotoritocchi” prima di Photoshop, come è stata interpretata la sua potenza e la sua magia dai “maestri”, da quelli che hanno fatto grande questo modo di raccontare per immagini.

Alle nuove leve, Photoshop non potrà essere raccontato solo come un enorme successo commerciale, è più che un best seller, ben più che una delle principali voci del fatturato di un’azienda di successo. Ci auguriamo che chiunque la racconterà, questa storia, riesca a prendere un briciolo di quell’emozione – probabilmente banale e “troppo umana” – che abbiamo cercato di raccontare in questo articolo. Abbiamo recuperato dalla memoria sensazioni che abbiamo vissuto. Il fatto che c’eravamo non ci da qualche merito in più, è solo sintomo di vecchiaia. Ma le emozioni riescono a vivere e a proseguire il loro cammino se qualcuno vuole scavare in quello che è stato, e non solo in quello che è… altrimenti forse sarà più difficile (anche solo “un po’ più difficile”) pensare al “come sarà”.

Ciao, giovane pin-up ventenne, buon compleanno Photoshop. Non ti preoccupare di coloro che cercano di dire che “la vera fotografia era quella di una volta, quella analogica“, lo dice anche un grande nome della fotografia (sapete di chi parlo?), ma è un approccio di chi non ha voluto capire, che ha deciso che “la verità” si trova su un supporto di acetato, e che quindi “il vero” sarebbe da ricercare nel supporto e non la mente, non la cultura, non la sensibilità. Non ascoltare quelli che vorrebbero bollare le foto ritoccate con un marchio, un razzismo sciocco e inutile: hai solo reso possibile quello che la mente progetta e sogna, il resto non conta: l’immagine è una poesia, un racconto, un sogno… e alla creatività non si chiede di essere “reali” e nemmeno “realistici”; la cronaca è un’altra cosa, è vero, ma purtroppo anche nella narrazione di un “fatto reale” la finzione è sempre superiore alle dichiarazioni di intenti: non serve Photoshop per fingere, diciamo sempre che basta una didascalia, basta dire quello che non è… Grazie di tutto, e il tanto è… tanto!