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Sono un fotografo, non un terrorista

Ieri, a Trafalgar Square, a Londra, si è tenuta una manifestazione dal titolo “I’m a Photographer, not a Terrorist” per combattere (pacificamente, c’erano bambini e famiglie) l’assurda situazione che, in Inghilterra, sta di fatto creando problemi a quei fotografi che vengono fermati dalla Polizia perché “fanno fotografie” (per esempio, leggete qui). Sono le direttive di una legge anti terrorismo, contestatissima perché di fatto toglie diritti ai cittadini e tratta coloro che sono liberi di fotografare per le strade come, appunto, dei potenziali terroristi. Le bombe, le armi e le fotocamere, usate con lo stesso metro e con lo stesso sospetto.

Vorremmo essere stati anche noi, in quella piazza, a manifestare un diritto, che è solo uno dei tanti esempi di un abuso che – nel nome della “sicurezza” della collettività – di fatto toglie dei diritti inalienabili, conquistati in secoli di lotta, a tutti noi. Anche se poi sono in pochi a percepirlo. Ho recentemente letto un libro bellissimo, che davvero consigliamo a tutti, che è un romanzo, si legge davvero con piacere e in un lampo. Si tratta di “X”, di Cory Doctorow, uno dei principali contributors di BoingBoing (blog che parla in modo intelligente di tecnologia, non come quello che si legge dalle nostre parti), ma è un racconto, un romanzo, non un trattato di tecnologia. Parla di un gruppo di ragazzetti di un futuro molto prossimo, che si trovano in situazioni simili, ovvero messi sotto controllo da procedure di “sicurezza” finalizzate a proteggere il mondo dagli attacchi terroristici e che quindi portano ad eliminare ogni forma di libertà. Senza arrivare nel futuro, siamo così controllati in ogni nostra azione che se ci facciamo caso, ci viene il voltastomaco.

Per le strade ci sono più telecamere di quelle di uno studio televisivo, all’aeroporto ci sono (saranno) i bodyscanner che guardano il nostro corpo nudo per vedere se abbiamo bombe nelle mutande, ed inutile parlare delle carte di credito, dei telefonini che individuano la nostra posizione, i nostri computer che trasmettono così tante informazioni su di noi che nemmeno ci immaginiamo. Ci siamo abituati, un po’ borbottiamo, ma alla fine diciamo che va bene così, che questo lo si fa per “il nostro bene”, per difenderci.

Pensate quello che volete, ma il problema è che questo “non ci difende affatto“. E’ stato dichiarato da un esperto che i bodyscanner non avrebbero individuato gli esplosivi del terrorista che voleva far saltare l’aereo del 26 dicembre. Sarebbe esploso lo stesso, malgrado tutti i controlli del bodyscanner, e non ha senso pensare che la protezione degli aerei possa poi impedire un disastro aereo, l’esplosione di un ponte, di una scuola… Perché tante attenzioni verso gli aeroporti e nessuna attenzione nei confronti delle stazioni? Body scanner per i pendolari che da Varese ogni giorno arrivano a Milano? O sulla metropolitana di Londra, le piazze gremite alla domenica di turisti? Non dico che non si debba fare nulla, ma che tutte queste azioni repressive e di controllo hanno un solo, unico effetto: quello di limitare la libertà delle persone, quelle che di certo terroristi non sono.

Questo libro di Doctorow mette in luce il fatto che se dei ragazzetti adolescenti riescono (e non abbiamo dubbi che questo sia possibile, non solo nel futuro) a manomettere i sistemi di sicurezza digitale, allora… figuriamoci quello che possono fare dei terroristi esperti. Cosa rimane, allora? Una società che mette davanti a tutto il proibire, il dubitare, il considerare “sospetta” una persona che semplicemente si occupa di Street Photography, oppure di fotografia di architettura, o che sta facendo una ricerca visuale per la scuola. Queste persone, semplici cittadini con tutti i diritti del mondo, possono essere fermate, interrogate, portate in caserma per controlli. E’ un abuso, che non è possibile permettere, perché si tratta di molto di più che una foto: stiamo bloccando la possibilità di raccontare la storia tramite immagini, per cosa? Per evitare che possano essere fatte azioni terroristiche? Come se non ci fossero i satelliti, come se non ci fossero le fotocamere grandi quanto la capocchia di uno spillo, come se non ci fossero i cellulari che possono riprendere tutto quello che si vuole mentre si fa finta di cercare un numero nell’agenda.

L’iniziativa di Trafalgar di ieri non è l’unica e non è da oggi che se ne parla: sono molte le iniziative on line che si sono attivate in questi mesi. Sul sito si possono trovare documenti che per esempio indicano quali sono i diritti di un fotografo (inteso come “colui che fa fotografie, non necessariamente ed unicamente un professionista, ma anche… ovviamente), e come deve comportarsi nel caso venisse fermato: in prima battuta, non sarebbe nemmeno tenuto a dichiarare le proprie generalità o motivi del perché siete in quel posto e state fotografando qualche cosa, a meno che non ci siano ragionevoli sospetti che lo richiedano, ma comunque nessuno ha diritto a farci cancellare le fotografie scattate, semmai, e solo rapidamente, poter visualizzare quello che avete scattato. Non crogioliamoci sul fatto che questa legge (Sezione 44 del Terrorism Act 2000) non sia in vigore in Italia: di solito siamo bravissimi a prendere il peggio e farlo nostro, ma comunque situazioni similari di controllo potremmo viverle anche da noi.

Quello che dobbiamo fare è diventare maturi, sapere quello che è nostro diritto, quello che è nostro dovere e quello che “no, non è giusto che ci venga chiesto”, perché è un abuso. Il consiglio è di guardare con rinnovata sensibilità alcuni strumenti, come per esempio il Telepass. Questa “saponetta” che abbiamo in auto trasmette dati relativi a noi e al nostro posizionamento, potrebbe (può, anzi: lo fa) tracciarci in ogni momento. Se questo lo sappiamo in certe situazioni (al passaggio del casello), quante possono essere le situazioni in cui qualcuno potrebbe (senza diritto) rilevarci senza che lo sappiamo? Quando salite in auto, guardate il Telepass, e vi tornerà in mente qualcosa che vi dico adesso (sul quale mi ha fatto riflettere il libro di Doctorow): perché non c’è un tasto “OFF”? Questa non è paranoia, come qualcuno potrebbe pensare, non necessariamente abbiamo qualcosa da nascondere, ma il concetto è che non è giusto che altri possano avere diritti di invadere la nostra privacy senza che li autorizziamo. In tutto, per ora prendete il Telepass e buttatelo in un cassetto, se proprio non vi serve ogni giorno, e tiratelo fuori quando dovete prendere l’autostrada.

Ci sono troppi filtri e sistemi che ci impediscono di essere liberi. Sul web, prima di tutto. Non siamo in Cina, e nemmeno nei Paesi dove la censura governativa è molto invasiva, ma in realtà non è proprio vero che qui, in un Paese libero, sia davvero tutto possibile. Se andiamo a questo link, possiamo verificare, per esempio, se un sito è o meno raggiungibile, e ci sono siti irraggiungibili (con buoni motivi o meno). Ci sono siti che, lo sappiamo, sono irraggiugibili non per motivi politici o perché contengono materiale deplorevole (siamo d’accordo che sia giusto bloccare siti che hanno come missione quella di proporre contenuti pericolosi, con messaggi violenti, eccetera), ma solo perché commercialmente è stato deciso che i diritti di “visione” sono limitati ad una zona geografica. Una delle risorse più belle che ci sono sul web è un sito che si chiama Hulu.com, una specie di YouTube che però contiene serialTV (vecchi e nuovi) e film (più vecchi che nuovi, ma sempre e comunque interessanti). Volete vedervi la nuova serie di 24, partita qualche settimana fa negli USA, e che dobbiamo attendere non so quanto in Italia? Beh, su Hulu.com c’è, e la cosa migliore è che tutto è “gratis“, nel senso che non si richiede un abbonamento, alcun pagamento e nemmeno una registrazione (che è invece utile per altre motivazioni, tipo indicare le proprie preferenze, per condividere contenuti con altri e per visualizzare trasmissioni indicate per “adulti”, anche se non ci sono programmi “hot”, ma semplicemente contrassegnati per un pubblico adulto). Il problema è che se vi collegate a questo sito dall’Italia, vi appare – appena cercate di vedere un video – una scritta che vi dice che, purtroppo, non potete vederli, punto e basta: i diritti degli italiani (dei francesi, dei tedeschi, dei giapponesi) è diverso rispetto ai diritti degli Americani, in questo caso. Ma non è nemmeno così: se un americano viene in Italia, deve subire lo stesso  vincolo: vale dove sei, non chi sei.

A questo punto, alcuni faranno spallucce, altri avranno le mani che prudono. Altri inizieranno a domandarsi: come fare a “superare” questi vincoli? Per esempio “facendo finta” di essere negli USA, e non in Italia, quando navighiamo? Anni fa abbiamo scritto un articolo che parlava di questo, abbiamo addirittura consultato un avvocato, e siamo arrivati alle seguenze conclusioni:

1) In Italia non viene (ancora) richiesto al navigatore di dichiarare le sue “generalità” (solo se si usano postazioni pubbliche), che è lecita la navigazione in forma “privata” e che, inoltre, è consentita anche la navigazione in modalità di “pseudonimo”. Questo significa che possiamo alterare alcuni (o tutti) i dati che ci riguardano, ivi compreso quindi anche quello relativo al nostro Paese di navigazione.

2) Di norma, in questi contratti “geovincolati” viene stipulato che il gestore del sito si impegna a mettere in atto filtri che impediscono la visione dei contenuti ai “non aventi diritto”; tali filtri non possono essere sicuri al 100%, quello che importa non è il singolo, ma la massa che non avendo conoscenza dei sistemi per eludere tali barriere, alla fine ne rimane escluso. Tutti sanno che queste barriere sono sottili, anche se efficienti nella maggior parte dei casi, e questo viene reputato sufficiente. Si potrebbe rinforzare queste difese, queste barriere, ma pagando un conto salato: sia in termini economici (i sistemi più rigidi sono più impegnativi dal punto di vista del costo), ma ancor più dal punto di vista della fruibilità: ci sarebbero complicazioni non solo per chi non ha diritto ad entrare, ma anche per chi questo diritto ce l’ha. Ogni sistema di accesso, quando si rende meno accessibile, impedisce un uso fluido a tutti.

3) Se è vero che noi, dichiarando di essere in “California” e non a “Milano” nei dati che “comunichiamo” tramite il nostro browser facciamo qualcosa di “poco corretto”, è anche vero che dall’altra parte ci sono siti che ci catturano dei dati senza chiedercelo. Insomma, non è carino neanche quello che fanno loro…

La materia è complessa, ma il senso è che ci sono cose che dovrebbero cambiare, per tutelare tutto: non solo i doveri, ma anche i diritti. Uno dei diritti è quello di poter proteggere la propria navigazione con una soluzione VPN privata: per esempio, se usiamo un wifi pubblico, come negli alberghi, è consigliabile, perché esclude il rischio di essere attaccati da hacker che usano la stessa rete (siamo fragili, nemmeno immaginate quanto: non è che Lisbeth Salander esiste solo nei libri e nei film di successo della serie Millenium). Incidentamente… una VPN protetta ci nasconde, ci garantisce l’anonimato e quindi ci permette di superare una serie di barriere. E’ un diritto, che si traduce nell’occasione di non essere tracciato. Date un’occhiata qui, scaricate il software gratuito per Win e Pc e addirittura per iPhone. E’ gratis, ha un difetto: rallenta la velocità di navigazione però… oltre a proteggervi vi offre un altro piccolo “benefit”: che se lo attivate (una volta installato vi trovate un’icona di uno scudo rosso in alto a destra del desktop) e aspettate qualche secondo, prima che diventi verde, a quel punto se tornate su Hulu c’è Kiefer Sutherland, ovvero l’agente Jack Bauer che vi aspetta con la nuova puntata di 24. Già, dal sito di Hulu pensano proprio che siete in California…

Questo SJ prendetelo più seriamente di quella che può sembrare il giochetto per superare una barriera “entertainment” antipatica da digerire. Stiamo parlando di diritti umani, stiamo parlando di un futuro che dobbiamo tutti contribuire a costruire migliore, con sensibilità, con cultura approfondita verso il digitale, che non è solo tecnologia, è parte sempre più profonda della nostra vita. E tutti dovremmo desiderare una vita migliore, non peggiore. Compresa la possibilità di uscire per strada con una fotocamera, e scattare belle foto, da mostrare poi a tutti. I’m a Photographer, not a Terrorist: uniamoci al grido da Trafalgar Square. Leggete il libro “X”, di Cory Doctorow: è un buon inizio.