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Salviamo il salvabile, fuori dalle C***e del marketing

Il marketing becero è quello che di solito genera più danni, specialmente in momenti di crisi. Quando il mercato si fa difficile, troppo spesso spuntano personaggi dal fare losco che si dichiarano “esperti di marketing“, che dispensano (possibilmente a pagamento) consigli e prospettive “corrette“, che ci fanno sentire stupidi perché non abbiamo la loro visione e intelligenza, acutezza e furbizia. Da anni cerchiamo di supportare il settore della fotografia con “Lezioni” di marketing intelligente, ed è difficile: primo perché, a prima vista, marketing fa appunto rima con “furbizia” e non con “intelligenza“, e secondo perché si rischia di cadere negli stessi errori di coloro che cerchiamo di combattere. Ma lo facciamo con la passione di chi ama questo mestiere e questa categoria, di chi vive sulla propria pelle le difficoltà di un mondo che rischia di sgretolarsi e quindi di chi cerca di prendersi la responsabilità di quello che dice, che vuole il successo di chi lo ascolta perché solo così, indirettamente, potrà anch’esso trarne beneficio (cosa ci starei a fare qui se non ci fossero più fotografi?).

Una delle maggior C***e che ho letto da tanti anni riguarda per esempio i negozi: per combattere i supermercati, la “ricetta” degli esperti di marketing di ultima ora (tra questi, anche purtroppo molti giornalisti di questo settore, che tra un buffet e un aperitivo – pagati con soldi non loro – scrivono articoli con questo tono e pensano di apparire colti e astuti) è quella di selezionare i prodotti, offrire “qualità”, competenza; specializzazione insomma… Lo stesso meccanismo, ovviamente, può essere rigirato su tante altre sfumature del mercato e del lavoro, persino tra i fotografi professionisti che producono immagini.  Rimaniamo però sulla tematica del “negozio“, perché il concetto di “bottega” aiuta a comprendere il concetto in modo migliore.

Intendiamoci, nella teoria il consiglio è anche buono, ma non è sufficiente dare un buon consiglio per lavarsene le mani e specialmente per consentire di risolvere le cose. Questa storia che vi raccontiamo lo dimostra. Qualcuno sa che sono appassionato di musica, che amo cercare, esplorare, ricercare, scoprire nuovi artisti (di solito, nuovE artistE, ho una preferenza netta per le voci femminili). Il mio iPhone, il mio computer, i miei hard disk sono gravidi di musica, spesso scoperta fuori dai circuiti commerciali. Per questo, in passato sostavo con grande entusiasmo nei “veri” negozi di dischi, non i supermercati con pareti intere dedicate a Lady Gaga o a Madonna, ma dove si poteva trovare musica originale, particolare, in grado di creare quell’effetto di scoperta. A Londra avevo un riferimento assoluto, la Tower Records a Piccadilly, piani e piani di musica, divisa per tipologie di musica, ci perdevo ore e ore, giorni e giorni. A Milano, l’unico negozio rimasto che meritava ancora tale nome, Mariposa (Corso Lodi, praticamente vicino a Porta Romana) ha recentemente chiuso, lasciando spazio ad una caffetteria con lo stesso nome, ma che dispensa thè caldo e biscottini al posto di CD, vinili, DVD.

Mariposa non si poteva certo accusare di nulla: il suo ruolo – specialmente nel settore della musica rock e alternativa –  lo aveva mantenuto, le persone che lo gestivano amavano la musica, erano competenti, la qualità e l’originalità del prodotto c’era… eccome. E, allora? Perché ha chiuso? Secondo le regole del marketing da cioccolatai/espertoni, avevano fatto tutto quello che era giusto, che era corretto, avrebbero dovuto fare tanti soldi. Eppure ha chiuso lo stesso. Cosa significa? Che vendevano un prodotto che non interessa a nessuno? Tutt’altro, la musica è molto viva come mercato, sebbene si pensi il contrario. Semplicemente, gli utenti che conoscevano e fruivano dei servizi di Mariposa non erano sufficienti. Il problema non era il prodotto, la capacità di offrire competenza e conoscenza preziosa, e non è nemmeno colpa della pirateria che “ruba fatturato“. Il problema vero è che una realtà del genere, che sarebbe da salvare come le specie di animali in via di estinzione, ha bisogno di un mercato che deve essere in grado di trovarle, queste “mosche bianche”. Non basta “essere”, bisogna che ci conoscano, che ci sia la possibilità di raggiungere il mercato.

Oggi non ha senso parlare di prodotto di nicchia, se non si sa come raggiungere questa nicchia. Si può vivere nella nicchia, ma non si può vivere di una porzione minima di una piccola nicchia, perché non si sopravvive. Ci si è messo anche  – tanti anni fa, poi purtroppo gli esperti markettari-giornalisti continuano a scriverne solo perché hanno capito i concetti 5 anni dopo  – Chris Anderson con la sua famosa teoria della “Coda Lunga“, che dice come se si elimina il costo del magazzino, si può ottenere un grande risultato economico dai prodotti venduti anche in una sola copia… E’ così per Amazon (che è enorme) che ha una sua fetta rilevante di fatturato proprio dalla sommatoria di prodotti infiniti che sono venduti in pochissime unità, ma che nel volume totale sono interessanti. Il problema è se vendiamo un solo prodotto all’unica persona che conosciamo che è interessato… possiamo anche avere uno scaffale digitale infinito e a costo zero, ma dobbiamo pur sempre mangiare panini fisici, e non virtuali, e per pagarli servono monete fisiche, e non virtuali. Quindi, serve buttare al macero le C***e scritte e studiate senza scendere a fondo dei problemi, senza capire, senza analizzare, senza usare sensibilità, passione e amore.

Cosa possiamo imparare, dalla chiusura di Mariposa e dalla crisi dei negozi di dischi? Che dobbiamo mantenere la nostra specializzazione, migliorarla il più possibile, innovarci e crescere, differenziarci con prodotti che nessuno (o pochi) sono in grado di fare, investire nel futuro… ma tutto questo non è sufficiente, se poi non sappiamo a chi vendere questa qualità, se non possiamo raggiungere un pubblico dal palato raffinato che lamenta proprio la mancanza di questa qualità. Come farlo? Muovendoci con azioni “di vero marketing” che tendono a studiare le strade e le piazze dove chi ha davvero bisogno del nostro prodotto possa trovarci, metodi che possono far capire la differenza tra un prodotto dozzinale e un’opera d’arte. Il lavoro non finisce con la sua produzione (o l’acquisita capacità di produrlo), ma inizia da lì. E può avere una nicchia sconfinata di utenti, che possono darci soddisfazione e risultati economici molto soddisfacenti, anche perché in pochi lavorano sulla nicchia, e quindi c’è meno competitività e meno aggressione commerciale.

Un modo potrebbe essere quello di creare movimenti culturali, per smuovere l’opinione pubblica, purché siano fatti con intelligenza e aggregando forze, per esempio la crisi dei negozi di dischi – evidente in tutto il mondo – ha trovato una giornata mondiale dedicata al Record Store Day: il 21 aprile 2012 si parlerà in tutto il mondo dell’esigenza di preservare questa cultura di luoghi che sono non solo “negozi” ma momenti di aggregazione, di incontro, di scambio di cultura. C’è un sito che ne parla e lo promuove, e ci sono tutti i negozi che vi partecipano, anche in Italia. E’ un bel momento, io sto comprando la maglietta e sono sicuro che vorrò partecipare alle manifestazioni, promuovendo l’iniziativa (come, in piccolo, stiamo facendo ora). Perché amo le potenzialità del digitale, ma i negozi di dischi mi mancano, e vorrei continuare a viverli, malgrado tutto. Non è certo la soluzione per tutto, ma bisogna pur iniziare: far parlare, trasmettere concetti, far capire, lavorare tutti insieme, promuovere, far vedere, far ascoltare: questo è il modo per sopravvivere, per non farsi seppellire. C’è tanto da fare, e noi saremo in prima linea per supportare coloro che non si arrendono, che vogliono credere che si può far sentire la voce bella nitida e forte, che si può lavorare con qualità e avere soddisfazione. Che vogliono credere e crederci.