Jumper

L'Italia è ora più "Wired", speriamo che possa rendere il nostro Paese meno "Tired". Considerazioni e un vero pezzo di storia, da leggere e scaricare

Il 19 febbraio, dopo una lunghissima gestazione, è uscito in tutte le edicole il primo numero di Wired Italia. Questo SundayJumper sarà un po’ particolare, perché vi chiederemo di leggere un documento PDF che è un articolo scritto nel 1998, dopo avere visitato la redazione americana, perché gran parte delle considerazioni che avevamo fatto (sob… 11 anni fa!) sono abbastanza attuali, e crediamo – alla luce della nascita dell’edizione italiana – stimolanti.

Solo un po’ di cronaca e qualche impressione, prima di farvi fare un volo di 11 anni nella storia di questa rivista (e anche un po’ della nostra: quanti di voi, che ci conoscono oggi, ci conoscevano all’epoca?). La sensazione iniziale è stata quella di sconforto: la scelta della copertina, dedicata a Rita Levi Montalcini, è stato un brutto colpo. Avrei pensato a tutti meno che a lei, il segnale sul “guardare al futuro” non assomiglia per nulla ad una scelta del genere, ma ancor di più lo shock è stata la scelta della finitura, stampata a caldo argento lucido, nulla a che vedere con Wired (Original), che ha le sue copertine di un opaco trattato con passaggio di vernice ad acqua in macchina e poi lo sfogliare le prime pagine e scoprire che la carta era raffinata, patinata lucida… più vicina a Vogue che non alla carta, molto americana, di Wired. Ovvio che non è in questi dettagli che si può valutare un prodotto complesso come questo, ma ci sono delle liturgie da rispettare, secondo noi, quando ci si avvicina ad un mito come questo, specialmente perché in un mondo sempre più digitale, il rapporto “fisico” di una rivista cartacea alla fine è importante.

Collegandoci sempre al lato “estetico”, sempre in copertina (ma non solo) mancavano le cromie di Wired, che sono sempre state legate a colori fluorescenti (colori speciali, o anche scelte accurate sulla tavolozza della quadricromia standard per ottenere colori e contrasti estremi). Un confronto evidente è quello di mettere il numero di Wired Italia accanto all’ultimo numero di quello americano:

E’ chiaro quello che intendo, vero? La nostra edizione strizza l’occhio ad un pubblico più elegante, più “raffinato”, ma anche più attratto dalla forma che non dalla sostanza. Sarà stato considerato, in fase di analisi strategica, che il pubblico italiano potrebbe considerare troppo “poco seria” una testata con i colori e la grafica da “graffiti”, ma in questo modo hanno accettato di creare disagio al pubblico che segue Wired, magari lottando con una conoscenza limitata dell’inglese, e che se pensa ad un colore per definire questa la rivista non avrebbe dubbio: “Arancione! come quello dello Stabilo Boss“.

Alla fine, però, ci si può abituare, quello che conta sono “i contenuti”. E i contenuti sono influenzati, nel bene e nel male, dal Paese che lo pubblica. Si dice che l’Italia sia dieci anni indietro, in queste “cose innovative” rispetto agli USA. Sembra un’eresia, forse un’offesa, ma è abbastanza vero. Non è che Wired Italia sia dieci anni indietro rispetto alla sua versione americana, sarebbe questa sì un’offesa, anche perché si tratta probabilmente della rivista più curata uscita in Italia negli ultimi anni, di sostanza, realizzata con grande sforzo. E’ il tessuto, sociale e culturale, di cui si alimenta, che è indietro, oltre ad essere diverso. Per questo, chi ama Wired (odio dire… “USA”, perché Wired è Wired… nemmeno l’edizione inglese, che è stata pubblicata per qualche tempo, tanti anni fa, è riuscita a creare la dualità: Wired è unica, ed è pubblicata a San Francisco) continuerà a comprarla “anche” e “soprattutto” nella sua versione originale, ma probabilmente anche in quella italiana. Dopo il primo numero, che inevitabilmente porta al confronto diretto, personalmente cercherò di vivere i due prodotti come indipendenti: cugini, ma nulla di più. E’ bello che ci sia Wired in Italia, facciamo quindi gli auguri al direttore, Riccardo Luna, e alla redazione. Ma ora torniamo al passato, a 11 anni fa, quando il sottoscritto, insieme al suo geniale grafico – “il Toni” – è andato a trovare Wired, la redazione mitica. Perché quelle sensazioni sono non solo nostre, sono per tutti (sarebbe bello che le leggessero anche chi ci lavora, a Wired Italia… chissà se avranno voglia di leggerlo, o se cestineranno perché noi non siamo nessuno… o almeno così accade in Italia, se non ti conoscono non sei nessuno). Non si tratta di autocitazioni, ma l’occasione di parlare di un pezzo di storia della storia digitale. Come c’era scritto nell’editoriale di Luis Rossetto che ha progettato e realizzato Wired nel 1993, la differenza da considerare è che Wired non è stata fatta da un gruppo di persone che per primi hanno capito, approfondito, seguito, dato parola alla rivoluzione digitale: sarebbe limitativo pensarla così. Wired è stata fatta da chi, questa rivoluzione, l’ha fatta. Per questo, tutto quello che è venuto dopo, anche la lungimirante e meravigliosa direzione dell’attuale direttore, Chris Anderson (quello della filosofia de “La Coda Lunga“, o portavoce del concetto del “Guadagnare con il Free“) è comunque venuto dopo, fa parte di un pezzo di storia diverso, e come tale non confrontabile. A questo ho pensato, dopo le prime sensazioni sui colori, sulla carta, sul “troppo lucido”, ma anche sui contenuti: non si può (e non è giusto) confrontare, si può solo essere contenti del fatto che l’editoria italiana ha un’occasione in più per brillare, e ne ha maledettamente bisogno (purché non solo con la stampa argento a caldo…).

Vi prego: scaricate questo PDF, è un po’ pesante perché le pagine sono scansionate (i files sono scomparsi, putroppo) a risoluzione sufficiente per poter leggere e per poter stampare. E’ un modo per condividere qualcosa di importante.

Clicca per scaricare il PDF dell’articolo di Jump (1998) sulla visita alla redazione di Wired a San Francisco. Nota: sono 37 Mb…