Jumper

L'innovazione salvera' l'editoria, se poi i contenuti sono poveri?

Nell’osservare il mondo che cambia, spesso ci si accontenta di misurare lo stato di salute di quello che conosciamo, e non diamo particolare peso a quello che, invece, sembra distante dalle nostre problematiche presenti. Sebbene molti fotografi non siano legati al mondo dell’editoria dal punto di vista lavorativo (nel senso che non hanno gli editori come clienti) l’influenza dell’editoria e i suoi relativi problemi sono un punto nodale nel mondo dei “produttori di immagini”. Quello che si evolve nell’ambito dell’editoria, quindi, dovrebbe riguardarci da vicino (e sappiamo che, invece, in molti snobbano dei segnali importanti: cerchiamo di metterci una pezza in questo Sunday Jumper).

La situazione dell’editoria, in tutto il mondo, non è rosea. Da un lato c’è una perdita di lettori – un po’ si informano attraverso la TV, altri sono stati persi con la radio (le persone hanno tempo di ascoltare, meno di leggere), e poi ovviamente c’è Internet – dall’altra, molto più preoccupante, l’erosione degli introiti pubblicitari, che riducono le entrate: la crisi si abbatte su tutti, e i primi tagli sono quelli della pubblicità, che è utile ma non fondamentale. Gli editori quindi da un lato cercano nuove idee per fare soldi, per tenere in piedi la “baracca”, usando trucchi come quelli dei “collaterals”, ovvero cose “collaterali” ai giornali e alle riviste che attraggono di più dei prodotti cartacei: DVD, gadgets, borse, e così via. Ma anche i “collaterals” sono arrivati al capolinea: mancano i soldi a tutti, e quindi non si cade in tentazione. A questo punto, si guarda al web con un altro occhio: prima si regalava tutto, perché tanto c’era la pubblicità a sovvenzionare, ma ora i giochi non tornano più (abbiamo letto statistiche che parlano di una contrazione del 27% degli introiti pubblicitari). Murdoch, che di editoria non solo ci capisce ma ne è uno dei maggiori esponenti al mondo ha dichiarato recentemente che le notizie sul web vanno fatte pagare, che non si può più andare avanti così. La strada, però, non è facile: chi è abituato a trovare gratis l’informazione, nella sua forma ormai conosciuta (leggi: pagine web), non gradirà questo cambiamento, e magari migrerà verso altri siti che invece seguiranno la strada del “free”. In pratica, quello che si rischia è di non guadagnare sul lettore, e in più perdere utenti e quindi forza contrattuale con la pubblicità: un bel dilemma.

Una via c’è, però, e presto sarà molto evidente. Senza segnalare cose che stanno passando per la nostra scrivania (digitale) in questi mesi, e che per motivi di confidenzialità non possiamo raccontare, una cosa è evidente: si stanno inventando nuove forme di editoria, digitale ma non espressamente “web” che verranno viste dagli utenti come “qualcosa di nuovo” e di conseguenza ci sarà maggiore disponibilità e attenzione. Facciamo un parallelo: se la musica digitale è diventata un mercato florido, se i film online sono – nei paesi che lo consentono legalmente – un business promettente, se le applicazioni per gli smartphones (iPhone e iPod Touch in prima linea, ma ci sono anche gli store di BlackBerry, di Palm, di Nokia eccetera) stanno facendo contenti gli sviluppatori… perché mai le riviste digitali non dovrebbero esplodere? Manca uno standard? No, non manca affatto (avete mai sentito parlare di Adobe AIR?), bisogna solo farlo conoscere e far capire: vi assicuriamo che qualcuno ce la sta mettendo tutta, e i risultati non tarderanno.

Non vogliamo tediarvi su aspetti tecnologici, vogliamo segnalarvi che tutti stanno correndo: per esempio Amazon sta spingendo molto sul versante del suo Ebook reader, Kindle2, che viene proposto come un ottimo strumento per leggere quotidiani, per esempio: al punto che il Corriere ha già firmato l’accordo di distribuzione dei suoi contenuti su questo device, peccato che in Europa non arriverà prima di un anno o due. E la stessa Amazon ha prima lanciato il suo software anche per iPhone (non disponibile fuori dagli Usa), e qualche giorno fa ha acquisito un bellissimo software che su iPhone ha sempre ben figurato: Stanza, anche questo un e-book reader molto gradevole, nato con l’idea di essere ponte verso la vendita di contenuti digitali (libri e riviste), esattamente come iTunes è stato il ponte per la musica digitale. Insomma, il maggiore venditore di libri al mondo cerca nuove strade digitali, con una strategia prima un po’ confusa e via via sempre più raffinata. Dall’altra parte, tutti attendono che si tolga il velo all’ipotetico “Big-iPod” che – secondo le voci di corridoio – dovrebbe avere uno schermo più grande e quindi essere lo strumento ideale per vedere contenuti multimediali, e anche riviste e libri digitali, tra l’altro a colori e con la potenza necessaria (il Kindle2 è solo a toni di grigio e permette solo di visualizzare documenti in formato “proprietario”).



Insomma, le piattaforme tecnologiche ci sono, e saranno tra breve sempre più evolute. Manca solo capire “come” fare riviste digitali, e questo è difficile, ma non impossibile, ma rimarrà un grande problema, che a volte appare insormontabile: potrà la tecnologia sopperire alla mancanza di precisione e di qualità dei contenuti? Ci auguriamo che la tecnologia possa non essere uno specchietto per le allodole, e che nasconda ancora una volta le carenze dei contenuti redazionali. Si, perché siamo furiosi, tutte le volte che i “grandi media” (ma anche i piccoli… purtroppo anche tra gli “specializzati” le castronerie si sprecano) parlano del nostro mondo. Dico sempre che se si parla di lavatrici, io non posso che affidarmi a quello che leggo: non capisco nulla di lavatrici. Se mi dicono che Victoria Beckham sta cercando di andare ad abitare al Castello Sforzesco di Milano (chi non abita a Milano non può capire la portata di questa follia), posso solo credere che la pazza sia la ex Posh Spice, e non la giornalista che riporta la cosa sui giornali.

Il problema invece appare evidente quando qualcuno si mette a parlare di quello che invece conosco un po’: di fotografia digitale, di software di elaborazione dell’immagine, di confronti tra due mondi che si discutono in modo approfondito: per esempio di un confronto tra Adobe Lightroom 2 e Apple Aperture. Non voglio e non mi aspetto che su un quotidiano importante come il Corriere, nelle autorevoli pagine del “Corriere Economia”, si possa scendere molto nel dettaglio, e nemmeno che il livello del discorso si possa approfondire come potremmo fare tra di noi, in ore ed ore di discussioni. Ma nemmeno mi aspetto che chi scrive un articolo (glielo ha imposto il medico? Forse il giornalista non era d’accordo? Voleva parlare di altro? Il direttore l’ha obbligato con la forza? Oppure ci ha pensato lui?) scriva in poche righe così tante cose sbagliate da far girare lo stomaco.

Parliamo dell’articolo, uscito lunedi scorso, 27 aprile 2009, dal titolo: Fotografia, il ritocco è casalingo, di Marco Gasperetti. Ho provato a cercarlo nell’archivio del Corriere, ma non c’è (perché, non lo so: forse li inseriscono qualche giorno dopo, se volete fare una ricerca anche voi, magari da domani, lunedi, potrebbe esserci. Il giornalista inizia col piede sbagliato, dicendo che sono due versioni nuove e non è così (Aperture 2, pur avendo proposto recentemente un piccolo upgrade di supporto è da parecchio sul mercato e la novità di Lightroom è la versione in Italiano), poi ci propone l’ennesima comparazione con le pile di floppy disc che si facevano negli anni ’90 quando si parlava di grandi volumi di dati.

Ma il peggio viene quando si scende nelle tematiche tecniche: ci dice che è possibile importare le immagini con lo scanner (i software in questione non pilotano gli scanner…), ci dice che Lightroom funziona anche sui computer più vecchi (cosa significa… “vecchio” nel mondo informatico è una parola pericolosa e inutilizzabile: vogliamo provare Lightroom su un 386 o su un Macintosh Quadra?), ma l’esperto scrivano tira le orecchie sul fatto “che il sistema di ricerca non è perfetto” (quando parla di Aperture si capisce che intende dire che non è in grado di leggere i metadati… ahh… non sapevo che Lightroom non consentisse la lettura dei metadati delle immagini: domani telefono agli amici di Adobe e gli chiedo se magari nella versione 8.5 riusciranno ad inserirlo… scherzo, ovviamente: logico che Lightroom li legge, i metadati!).

Quando parla di Aperture non è che la situazione migliora: ci spiega che la libreria delle immagini è “persino migliore di iPhoto”… bella questa… come dire che il motore di una Ferrari è persino più potente di quello di una 500. Ma, pur valido e più economico, il “difetto” di Aperture è quello di funzionare solo su Mac… e qui scende nell’ennesima frase tirata dal cassetto impolverato, ci dice, in modo accondiscendente, che è vero che i computer “della mela” a livello grafico hanno qualcosa in più però… insomma forse in Apple non sanno che la maggior parte dei computer usano il “sistema operativo di Bill Gates” (altro modo di dire vetusto… cosa non si fa per riempire di parole ed evitare ripetizioni). Vorrei davvero – da utente appassionato, amante, paranoico per il Mac – sapere dal giornalista di citarmi almeno 3 cose che “rendono il Mac graficamente superiore a Windows”: se lo dice, vuol dire che saranno ben chiari, per lui, questi vantaggi… se no mica lo avrebbe scritto, vero? Ho come l’impressione che questa sicurezza potrebbe non essere nelle corde dell’esperto che ha redatto l’articolo: sono modi di dire, come in ascensore che si risponde “Bene” se qualcuno ti chiede come stai… mica vai a dire “guarda, mi hanno appena distrutto la macchina, mio zio si è suicidato, ho perso il lavoro e la mia squadra del cuore è andata in serie B”… si dice “tutto bene” e si sorride in modo scemo.

Il colpevole non è il giornalista in questione, è la leggerezza dell’editoria: cosa ci ha detto questo articolo? Nulla, perché non è sceso nel dettaglio, non ha capito la differenza, non riesce a consigliare un utente non esperto, non fa chiarezza sulle potenzialità: li tratta come se fossero due programmini di quelli che si trovano anche on line, gratis: aumentano il contrasto, consentono di tagliare l’immagine, ottimizzare il colore: ma questo non lo fa anche qualsiasi programma, anche su un cellulare? Perché comprare dei software come quelli presi in esame?

Capiamo che è difficile fare una recensione comparativa di strumenti così complessi, ma perché farlo allora? E se serviva farlo, per qualsiasi motivo, non si poteva chiedere un parere a degli esperti, magari due fotografi: uno che usa Lightroom e uno che usa Aperture? Ma l’editoria è una macchina che sforna articoli senza controllo, senza analisi, lo sforzo deve essere minimo, c’è uno spazio da riempire, il contenuto poco importa. Se questo è l’atteggiamento, viene voglia di scendere dal treno, e tutti gli sforzi che si potrebbero fare per aprire l’era digitale all’editoria crolla nella polvere.