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Cultura "usa e getta" e ansia da posterità

Al sabato (e alla domenica, se non mi sveglio troppo tardi), amo leggere i quotidiani “cartacei”. E’ un senso di pace, di relax che durante la settimana non posso – e, oggettivamente, nemmeno molto voglio – permettermi. Durante la settimana, la cronaca mi raggiunge per altre vie, quasi tutte digitali, ma non al sabato, quando leggo i quotidiani “cartacei” e, per di più, con uno strano approccio: dall’ultima, alla prima pagina, come se fossi arabo, o come se lo fosse il giornale in questione (e, a volte, parla in effetti “arabo”, nel senso che si esprime con una lingua a me fin troppo distante).

Questa mattina stavo leggendo il Corriere (che continuo a leggere per attaccamento storico derivato dalla cultura di quando ero bambino e i miei genitori lo leggevano, ma oggettivamente non lo considero poi così meritevole, al giorno d’oggi). A pagina 18 ho trovato un contributo che ha meritato l’investimento del costo pagato all’edicolante (1,50 Euro, al sabato c’è l’inserto Io Donna): firmato da Javier Marìas è intitolato “Un ridicolo desiderio di eternità nell’era della cultura Usa e getta“. In realtà non condivido quello che è stato scritto, ovvero che oggi quello che si produce nasce per durare poco, al contrario di quello che si creava anni fa. Insomma, secondo questa tesi, i classici si leggeranno, si guarderanno, si ameranno sempre… quello che si produce oggi, e che magari ha grande successo, tra pochi anni non verrà ripreso e “rivissuto” da nessuno, sempre secondo questo importante scrittore spagnolo. Non critico, non condividere non è segno di mancanza di rispetto, anzi: il fatto che lo segnalo è che mi ha fatto pensare, riflettere, mi incuriosisce. E vorrei trasmettervi il mio pensiero, così come vorrei avere la vostra opinione.

Davvero stiamo creando una cultura “usa e getta”? Un film come Avatar (citato nell’articolo come esempio “lampante” di questa realtà) davvero tra cinque anni non verrà più guardato, mentre all’infinito si riguarderanno i film di Hitchcock? Ed è vero che tra qualche anno nessuno vorrà più leggere il Codice da Vinci (btw, era meglio non leggerlo proprio, nè tra cinque anni, nè quando è uscito…), ma si leggeranno sempre con passione Dickens o Flaubert? Forse è vero, ma mi sembra in parte un approccio leggermente snobbistico, che non riesce a scavare davvero a fondo, e non ho la cultura necessaria per farlo io. Davvero quello che stiamo producendo è destinato all’oblio? A non durare?

E’ vero che la produzione attuale si basa su un consumo rapido, si divora, si ricicla in qualsiasi prodotto, si dirama in ogni direzione e su ogni media, e poi… lascia spazio ad altro. In effetti, un libro famoso, che ha venduto milioni e milioni di copie, una volta terminato il suo flusso di vita utile, poi perde il suo senso, forse non si dimentica, ma non si riprende in mano, scade. Avatar, dopo avere riempito la nostra fantasia, dopo averci fatto discutere ancor prima della sua uscita, dopo che ci ha messo in coda per poterlo vedere, dopo l’uscita (quando uscirà, tra qualche mese) nella versione DVD e Blu-Ray, e dopo l’uscita sui canali televisivi – prima quelli a pagamento, poi quelli gratuiti – sparirà dei nostri occhi e dal nostro cuore, tra dieci anni nessuno forse lo vorrà rivedere, se non gli appassionati, i puristi e gli studiosi. Forse è vero, signor Javier Marías; al tempo stesso, credo che non si sia considerato un fattore che è tipico della nostra cultura, scrivendone mi sembra più nitido di quando ho letto, questa mattina, l’articolo.

La nostra cultura, la nostra storia, è sempre più fatta di tasselli che componiamo. Siamo bombardati da tanti messaggi, ogni giorno di più. Non abbiamo tempo (e forse voglia, o capacità) di soffermarci a “rivivere” un passato, ma non per questo esso cessa di esistere: vive in noi, vive in quello che rappresenta, vive nelle citazioni che se ne faranno. E vive in quello che lo farà rivivere: le cose che davvero valgono non muoiono, vengono riprese, rielaborate, riattualizzate. La tecnologia digitale rende possibile questo, oggi, più che mai, e c’è qualcosa in più: una memoria in rete che non cancellerà facilmente le tracce. Il passato ci ha donato opere fantastiche, sulle quali tutte le generazioni – passate, presenti e future – potranno studiare e apprendere, ma al tempo stesso sono state distrutte definitivamente opere che, per mille motivi, non sono state tramandate. E’ troppo facile guardare al passato come più ricco, culturalmente parlando, rispetto al presente, che vive di “consumismo”. Noi, del passato, possediamo solo quello che una ristretta cerchia di ben pensanti hanno reputato degno di trasmetterci; oggi abbiamo delle armi più democratiche e con migliore memoria: se tra vent’anni qualcuno vorrà fare una ricerca sui libri più importanti degli ultimi 50 anni, 100 anni… il “google del futuro” li proporrà, potrà recuperarli in forma digitale, ma in più consentirà facilmente di rintracciare e unire tasselli di vario genere, e proporre un percorso di studio e di informazione che prima era impossibile.

Quello che serve oggi, per garantire una risposta a quella che lo scrittore definisce “ansia da posterità“, è “esserci“, fare in modo che la nostra opera venga vista, che possa essere stimolante, che possa avere dei messaggi che meritano di essere riportati (e, per essere “moderni”, essere riportati significa essere “linkati“). Avatar è stato un fenomeno importante che sta influenzando e influenzerà la cinematografia futura, che ha fatto breccia nella cultura, al punto da essere al centro di milioni di opinioni, discussioni, re-interpretazioni, parodie. Questo non sparirà, mai. Forse – e non è detto – tra vent’anni nessuno lo guarderà per “intero”, ma ci sarà qualcosa di più importante: sarà dentro di noi, e sarà all’interno delle nostre memorie digitali. I nostri figli e nipoti, prima o poi, si imbatteranno in foto di personaggi buffi e blu, e se saranno stimolati ed incuriositi, andranno a caccia delle radici, trovandole.

Per questi motivi, credo che sia meglio essere ottimisti: non stiamo producendo una cultura senza futuro, non stiamo creando qualcosa che sparirà. Se fosse così, sarebbe lecito domandarci perché creare qualcosa. Perché, malgrado tutto, specialmente malgrado un mercato che sembra non chiederci nulla di più di qualcosa da consumare in una stagione (a volte, una stagione di un giorno o di poche settimane), sono convinto che sono in molte le persone che ci seguono che aspirano a lasciare qualche segno del proprio passaggio, in questa vita. Non credo che ci meritiamo di perdere illusioni e speranze: non siamo cultura che non vale nulla, che verrà buttata.