Jumper

Cosa potrebbero imparare i fotografi dal business model di Spotify?

In questi giorni ho approfondito un servizio – molto famoso e usatissimo negli USA e in altri Paesi che lo hanno già attivato, ma al momento non disponibile in Italia – che si chiama Spotify. Ovviamente è molto che lo conosco e ne ammiro le potenzialità (da quando, tanti anni fa, era solo una promessa nata in Svezia, ricordo che attorno al 2008/2009 ero saltato dalla sedia quando ne ho conosciuto il progetto), ma come tutto c’è molta differenza tra “sapere” e “usare”. Sono anni che diciamo che “progettare” idee e soluzioni per device mobili e tablet non è possibile, a meno che non si usino quotidianamente, anche se molte volte questo atteggiamento viene preso con la giusta considerazione.

Per chi non lo conoscesse, Spotify è un servizio (legale) per fruire della musica gratuitamente, oppure con una piccola quota mensile, con maggiori vantaggi che illustriamo: la versione gratuita permette di ascoltare musica, ma solo in “streaming”, come una radio con la differenza che possiamo scegliere cosa ascoltare. E’ uscito un nuovo disco di Alanis Morissette? Invece che “comprarlo” lo si può ascoltare tutte le volte che vogliamo, ma ci è richiesta la connessione online. La versione “Premium”, oltre a non avere la pubblicità, permette anche di scaricare i brani che vogliamo sui device mobili per l’ascolto offline (molto comodo, anzi direi fondamentale, considerando i costi di connettività cellulare) e di non avere limiti di tempo di ascolto. Le versioni a pagamento costano 4,99 Dollari e quella più evoluta 9.99 dollari al mese. Perché vi parliamo di questo, che è un servizio musicale (e non c’entra nulla con la fotografia), che per di più non è – al momento – accessibile in Italia? Perché ci sono due o tre elementi che ci permettono di affrontare la questione dal nostro “lato” della medaglia.

*

1) La musica ha una logica di fruizione diversa rispetto alla fotografia, ma proprio per questo dobbiamo comprenderla meglio. Le persone hanno ben chiaro il concetto del “diritto di fruizione” della musica: vuol dire poter mettersi le cuffiette (o accendere l’impianto stereo, o iTunes… vedete voi la modalità preferita) e ascoltare la musica preferita, come e quando si desidera. L’acquisizione di tale diritto può essere fatto in vari modi: si compra il CD in un negozio e poi se lo si vuole fruire su un device digitale bisogna convertirlo (pratica al margine dell’illecito, in teoria la “copia privata” è consentita, ma messa in discussione); si può comprare il file direttamente da uno store digitale (iTunes, Amazon Mp3 Store, Google Play, eccetera…) e ascoltarlo sui device desiderati, dal computer agli smartphones e tablet, oppure… si può (non si può, ma si fa) scaricare la musica con procedura illecita usando soluzioni come i Torrent, oppure dai siti che offrono questa possibilità (ripetiamo, illegale). Il concetto è però che – una volta “acquisito” l’uso del bene (fisico o file) – possiamo usarlo come e quando desideriamo, solo la perdita del “bene” ce lo potrebbe impedire. Con Spotify, invece, il diritto di fruizione in streaming (quindi usando la connessione internet) è gratuito, pur con qualche vincolo, mentre quello a pagamento diventa possibile la fruizione totale, ad una sola condizione: che si continui a pagare la “quota” mensile. In pratica, l’utente Spotify pagando una cifra di 9,99 dollari (circa 8 euro) al mese, ha diritto di accesso, di download, di ascolto 24 ore su 24 di milioni di brani musicali. Non si “compra” più un “oggetto” (anche un file è, alla fine, un “oggetto”), ma si compra un diritto di utilizzo, che decade quando decidiamo di interrompere questo servizio. Si tratta dell’evoluzione più moderna del “diritto di utilizzo”: non una tassazione per ogni oggetto/brano che desideriamo, ma una “quota associativa” che ci permette di fruire tutto e in ogni momento. In pratica, acquistando un “disco” al mese, li hai tutti a disposizione… Pensiamo a questo in ambito fotografico: pensate di avere clienti che possano avere accesso al vostro intero database di immagini (o a una parte di esso), senza vincoli, pagando una quota mensile: ci sarà quello che ne userà tante, chi poche… ma tutti pagheranno la stessa cifra, e per voi sarebbe una sicurezza economica e una base sostenibile che si aggiungerà al lavoro “artigianale” (quello che si fa su commissione). Questa soluzione è adottata anche nei ristoranti: “Mangiate tutto quello che volete e che riuscite, a 14,99 euro!”, c’è quello che arriverà a stare male perché si strafogherà, ma ci saranno tanti che mangeranno meno di quello che pagano… alla fine ci saranno mediamente utenti che mangiano quello che è stato previsto dal costo. Il problema è che la soluzione meravigliosa di Spotify per le immagini fotografiche e video non funziona… vediamolo nel secondo punto.

*

2) La musica può essere inscatolata in un contenitore protetto, le immagini usate a scopo professionale no. Cosa significa? Che per poter fruire della musica, è possibile imporre l’ascolto attraverso un contenitore che possa controllarne l’uso, per esempio l’applicazione di Spotify che può controllare se l’utente ha diritto o meno di ascoltare la musica; se non paghiamo la “quota” i diritti di colpo si interrompono; abbiamo scaricato magari migliaia di brani, ma il suo accesso sarà vincolato solo al diritto che viene garantito e controllato dall’applicazione. Potremmo fare lo stesso (un’app-browser per vedere delle immagini) ma quasi nessuno è disposto a comprare il diritto di visione di immagini fotografiche (eccezioni escluse), ma solitamente si accetta di comprare un’immagine per “usarla”: dalla modalità più banale, come “metterla come sfondo sul mio desktop del computer”, a pubblicarla su una rivista, sulla copertina di un disco, su un sito internet, su una brochure aziendale. Per fare questo, è necessario “far uscire” l’immagine dal suo “contenitore-protettore” e quindi quello che si scarica “durante” l’abbonamento ci rimane per sempre, il “servizio” diventa “oggetto”. Si entra nel concetto di quella che sono alcune delle maggiori tematiche discusse in questo momento. Vediamole qui di seguito.

*

3) Qualche mese fa, e da pochi giorni disponibile anche nella sua traduzione italiana (lo potete trovare qui, per esempio, oppure in altri store digitali, oppure ovviamente anche in libreria), è uscito un libro chiamato “Makers” (il titolo non è stato tradotto nell’edizione italiana, significa: “coloro che fanno”, prima ancora che “Produttori”), scritto da Chris Anderson, ex direttore di Wired USA e scrittore di libri di successo di cui abbiamo parlato spesso anche in questo spazio. Cosa dice questo libro? Beh, meglio lasciare la parola alla sinossi dello stesso Anderson e alla spiegazione che viene riportata all’inizio del libro che lo illustra bene:

Una nuova rivoluzione industriale è alle porte. Anzi, è già cominciata. Dopo aver sovvertito il mondo dei bit – e quindi l’industria della musica, dei video e l’editoria – la cultura digitale sta per trasformare il mondo degli atomi, degli oggetti fisici. E come nella prima rivoluzione industriale fu una macchina, quella a vapore, a innescare un cambiamento epocale, anche in questo caso c’è di mezzo una macchina: la stampante 3D, che consente di stampare oggetti come si stamperebbe un foglio, dando vita alla “fabbrica personale”.
È questo l’importante annuncio di Chris Anderson, l’osservatore che prima di tutti ha definito i trend più avanzati della nostra era – dalla coda lunga di Internet alla gratuità della Rete -, in un libro che spiega come, nel prossimo decennio, gli innovatori più brillanti, coloro che hanno “visioni” di nuovi prodotti in grado di cambiare il futuro, non dovranno più affidare ad altri la realizzazione delle loro idee, ma potranno produrre e distribuire da soli, sfruttando il web e le nuove tecnologie e capovolgendo il mondo della produzione industriale. Alla base di questa rivoluzione – una sorta di “ritorno” dal virtuale al reale – oltre alle stampanti 3D, ci sono tutti i principali trend nati in rete – dalla peer production, all’open source, dal crowdsourcing al crowdfunding – che permetteranno a chiunque di finanziare e produrre un singolo oggetto a costi bassissimi.
La conseguenza per il futuro: tante piccole fabbriche personali e un movimento inarrestabile di “artigiani digitali” che soppianterà la produzione di massa.

Cosa vogliamo dire? Che dobbiamo comprare stampanti 3D e produrre qualcosa? Non è detto (anche se potrebbe essere un’idea), ma specialmente vogliamo dire che bisogna pensare che – in assenza di strumenti che possano creare un mercato come “quello di Spotify”, che mette a disposizione ad un costo molto contenuto tutto un intero archivio da fruire digitalmente, ma che “blinda” questo valore all’interno di un contenitore in grado di gestirne l’accesso, visto che questo non è possibile dal punto di vista delle immagini, come abbiamo detto, la strada potrebbe essere quella di pensare ad una soluzione che rimetta in gioco il concetto “Compra e ricevi” della vendita fisica, ma che possa abbinare un approccio che consenta l’accesso e un uso parziale – nel tempo o nella flessibilità – ad un costo molto basso, o addirittura gratuito, e che poi tramite questo percorso sia possibile l’acquisto di beni che non sono “virtuali”, ma sono concreti e “fisici”. Ve lo scrivo così, come viene… bisogna analizzare i servizi e i prodotti da offrire, ma in questa fase dobbiamo capire il concetto fondamentale: un brano musicale e un file immagine sono sostanzialmente – dal punto di vista dei “bit” – la stessa cosa, ma non lo sono dal punto di vista della loro “vendita” e fruizione e quindi è necessario andare incontro alla tendenza sempre più evidente del mercato (totale accesso a tutto il contenuto e a tutti, con un modello economico che punta all’ampiezza dell’utenza) comprendendo i limiti oggettivi e le specificità della fruizione delle immagini. Attenzione, non vogliamo dire che bisogna “svendere”; ma che bisogna creare un business model che possa portare a vendere a costo molto modesto a tantissime persone contenuti considerati di valore dal “cliente”, per poi trovare da pochi fonti di reddito più elevate e verticali. Ci sono già venute, mentre scriviamo, alcune idee molto carine, vedremo di materializzarle… Di sicuro quello di cui parliamo non è teoria, è pratica molto concreta… C’è un ultimo pensiero da mettere in questo che è un indicatore di tendenze che vanno digerite e analizzate, forse un vero e proprio vademecum da tenere in considerazione per lo sviluppo dell’attività economica di quest’anno, e quindi probabilmente la premessa di quello che sarà il percorso che seguiremo insieme in questo 2013. Si tratta di quello che viene chiamato “Internet delle cose”.

*

4) Internet delle cose è un concetto per ora un po’ distante dal mondo dell’immagine e della comunicazione, ma che esploderà anche nel nostro settore, e possiamo spiegarvelo così: finora, l’accesso a internet avveniva con strumenti preposti (computer, smartphone, tablet…), ma sempre di più si stanno sviluppando prodotti dotati di connettività e di “intelligenza”, in grado di poter interagire via rete per trasmettere esigenze (un sistema che rileva se c’è abbastanza acqua e umidità nel vaso di una pianta, per esempio), per segnalare, per offrire variazioni, per ottenere attenzione. Cominciamo da oggi a condividere un concetto che si svilupperà nei prossimi mesi, è che legato all’idea che l’oggetto-fotografia (una “cosa”) possa comunicare e interagire tramite la rete e strumenti preposti al ricevere queste informazioni. Questo che sembra futuro potrebbe non essere così distante, e nella sua visione ancora primitiva (ma ancora poco e male usata) ci sono i QR-Code, che non sono certo una tecnologia evoluta (si basano su una interazione tutta manuale e non un chip integrato che si collega alla rete, ma il concetto è semile), ma che potrebbero offrire evoluzioni e prodotti fantastici: si vende una stampa, si accede ad altri contenuti di grande valore via rete.

Questi temi li approfondiremo, per ora metteteli in un angolino della vostra mente, c’è molto lavoro da far fare alla nostra testa, ai nostri occhi, alle nostre idee. Noi lo faremo qui, ascoltando la musica che ci propone Spotify. Ma come, non avevo detto che non si può accedere al servizio in Italia? Ooops…. eppure lo sto facendo, e questo apre un altro discorso, che è quello di dominare le tecnologie e non solo subirla. Ma so che siete stanchi, quindi la chiudiamo qui, per ora ;-)