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Chiude Grazia Neri, qual è il senso?

@ Foto Grazia Neri - Ufficio stampa

Ci sono molte sfumature sulla questione che è stata al centro di tutti i dibattiti nell’ambito della fotografia, questa settimana: l’annuncio della messa in liquidazione della storica agenzia Grazia Neri, a seguito della decisione presa dalla famiglia Neri e dei soci. Abbiamo ricevuto decine di segnalazioni, da parte delle persone che ci seguono, ogni settimana sul Sunday Jumper e ogni giorno sul sito, segno che in qualche modo fosse logico che ne diventasse l’argomento di questa domenica, e in effetti era ovvio che fosse così. Al tempo stesso, non è facile parlarne, e specialmente cercare di trarne delle conclusioni, farne un esempio di quello che non funziona e di quello che bisognerebbe fare. Sarebbe troppo facile fare valutazioni semplicistiche: ognuno di noi potrebbe avere una motivazione del perché una realtà così consolidata nel mondo della fotografia possa sparire di colpo. E, di tutto si può dire, meno che si cerca in questa sede di analizzare le cose in modo “semplicistico” (o, almeno, questo è il tentativo).

Partiamo dal patrimonio, i giornali lo hanno messo in primo piano nell’analizzare in poche righe i fatti: il rischio di perdere questo patrimonio di 9 milioni di immagini. Prima di capire cosa potrà succedere “realmente” a questo patrimonio, c’è da domandarsi come fa un’agenzia che rappresenta nomi del calibro di Annie Leibovitz, Douglas Kirkland, Herb Ritts, Howard Schatz, Karsh, James Nachtwey e che rappresenta agenzie internazionali quali BLACK STAR, VU, CONTACT Press Images, AFP VII, Polaris possa non avere più successo. Non c’è più bisogno di questa qualità? Ovvio che il mercato non è fatto solo di grandi fotografi e di grandi fotografie: sono le gocce quotidiane che fanno il fatturato, quindi magari di Annie Leibovitz c’è sempre bisogno, ma quello che potrebbe essere successo è che le foto che riempiono le pagine di tutti i giornali e le riviste, ogni giorno, sono pagate così poco da non lasciare margine. Insomma, la prima considerazione che viene “facile” è dire che il microstock ha “ucciso” le grandi agenzie. Ma, lasciatemelo dire, non credo che sia così, a meno che non si voglia avere un capro espiatorio che possa in qualche modo metterci il cuore in pace.

Il microstock – di cui abbiamo “riparlato” la settimana scorsa e che sarà oggetto di un grande evento che stiamo organizzando (perché i fenomeni bisogna conoscerli, per comprenderli e anche per combatterli, se serve combatterli) – sembra essere al massimo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, ma non è la causa principale: i problemi delle agenzie vengono da più lontano.

Guardando con attenzione, è difficile trovare un punto debole nell’attività dell’agenzia: ha seguito con passione gli aspetti culturali, ma anche quelli tecnologici, cercato strade anche coraggiose per individuare nuove sfaccettature, la sua presenza a livello internazionale è sempre stata molto forte… insomma, non è stato tralasciato nulla, almeno come tentativo, è quello che sta attorno che non funziona. Non l’abbiamo vissuta direttamente, ma l’abbiamo osservata, da fuori. Eravamo proprio lì, un paio di mesi fa, per intervistare un fotografo, e ho incrociato dopo tanto tempo Grazia, che mi ha salutato, ha sorriso come sempre faceva, e col senno di poi sarebbe stato giusto fermarla un attimo, per chiederle qualcosa su questo mercato, sulle sensazioni vissute da dentro. Se vorrà, mi farebbe piacere parlarne, ma oggi sembra pretestuoso, sembra entrare con gli scarponi sporchi di fango in una stanza candida e delicata. Odio i giornalisti che si “accorgono” delle situazioni solo quando esplodono, e cercano – in nome di un “diritto di cronaca” – di abbattere quella sottile parete che si chiama rispetto e dignità. Magari, oggi, Grazia non ha voglia di parlarne, oppure quello che c’è da dire oggi è legato alle mosse che si faranno in futuro; qualche mese fa sarebbe stato diverso, ma come al solito la fretta non aiuta a seguire l’istinto, e forse proprio in questo trovo la base del problema vero…

Quello che succede -si dice – è che l’editoria è in crisi. E’ stato anche ripreso da tante fonti una frase di Michele Neri che puntava il dito proprio sul problema della profonda crisi dell’editoria e della pubblicità. Credo che non sia solo un problema di tipo economico, che pur c’è, e nemmeno il fatto che altre agenzie più forti o con maggiore aggressività commerciale  (che bisogna potersi permettere, non è solo questione di attitudine) abbiano spuntato contratti in esclusiva con i principali editori, eliminando di fatto la concorrenza e imponendo ai photoeditors di attingere solo da queste fonti fotografiche. Il fatto è che l’editoria ha perso il parametro del dettaglio, della sfumatura: si tende a massificare, a globalizzare, a semplificare. Le riviste e i giornali trovano strade di sopravvivenza che devono seguire percorsi semplici, per utenti che si accontentano di un’informazione che non esce dal coro, che non impone sforzo. Si sfoglia, velocemente, e non si legge. Si guardano le gallerie di immagini con il dito sul mouse per passare da uno scatto all’altro in meno di una frazione di secondo. In questa “evoluzione”, chi subisce è chi cerca (pretende, spera, impone, sogna) attenzione, per poter cogliere quella differenza che esiste, ma richiede voglia di percepire, tempo da dedicare, concentrazione. Perché non ho detto, quel giorno, a Grazia: “Ciao, è tanto che non ci si sente, che non ci si parla: possiamo andare a bere un caffè insieme? Mi dici qualcosa di come vedi questo mondo?“. Perché correvo, come tutti (probabilmente come lei), ma è proprio questo che distrugge il mondo che abbiamo cercato – ognuno nel suo campo – di costruire. Se poi lo vediamo sulle riviste, sui giornali, nell’informazione, non possiamo accusare  “gli altri”, dobbiamo fare autocritica, tutti: perché siamo tutti attori, nel bene e nel male, di questa evoluzione/involuzione.

Cosa si può fare per cambiare? Perché più importanti delle parole, e persino delle tanto amate fotografie, ci sono persone. Già lo staff di Grazia Neri era passato da 31 a 14 persone, ora la chiusura impone un pensiero che merita tutto il rispetto necessario. Non si può pensare che il futuro ci porta a far sparire tanto valore (di immagini, di professionalità, di competenza) e non possiamo nemmeno pensare che il problema sia solo italiano (anche da Gamma le notizie non sono buone, ed è solo un secondo esempio di tanti). Ci sono molte cose da fare, ma prima di tutto bisogna cercare, tutti, di cambiare mentalità: è chiaro che qualcosa deve cambiare: ripensare al business della vendita delle foto e dei diritti, considerare le tendenze emergenti che sono il microstock, i concetti degli abbonamenti al proprio archivio, alla condivisione della propria creatività usando sia i social network che le licenze più aperte (Creative Commons). Ma abbiamo detto che sarebbe sbagliato cercare di proporre formule vincenti, come quelli che ti promettono numeri per vincere al lotto… se davvero funzionassero, li userebbero loro per diventare miliardari, no? Tutte questi argomenti non sono risolutivi, ma crediamo che queste situazioni drammatiche debbano essere l’occasione per cambiare (o valutare) l’atteggiamento, per scoprire che forse la strada “giusta” è in un approccio che finora abbiamo considerato lontano da noi.

Rimane un tarlo, però, fortissimo: lo abbiamo da tanto, ma ogni giorno mi convinco che sia la vera strada, e lo condivido con voi qui non perché debba essere una risposta, ma solo perché il percorso mentale mi ha portato qua. I fotografi (e le agenzie, di conseguenza) hanno sempre vissuto una situazione di “passività” nei confronti della committenza: c’è sempre stato qualcuno che “ha bisogno” di immagini, stock o da produrre, e che cerca un fornitore. Con queste immagini, produce “cose” (riviste, libri, brochure, pubblicità…) sulle quali guadagna dei soldi: vendendo copie, facendo vendere prodotti, eccetera. Se il valore della fotografia scende, perché la committenza non ha motivi (che sia giusto o sbagliato, poco importa: succede) per richiedere maggiore qualità o non è disposto a pagare il giusto prezzo della qualità, allora questo meccanismo va cambiato radicalmente, trasformandoci in “attivi”: perché solo gli altri possono guadagnare “usando” le nostre fotografie? Non possiamo pensare di essere noi stessi produttori di “cose” che usano le nostre fotografie, per fare soldi con le “cose” e non con le “semplici immagini”?   L’argomento è lungo, e profondo, e non ha senso trattarlo in questo numero. L’impressione però è che ci sono spazi per inventare un nuovo modo di vendere fotografie, sotto forma di contenitori di nuova fattura e di nuova visione, trovando risorse economiche con nuove soluzioni e nuovi metodi. Il mondo digitale non ha portato solo fatti negativi, ma sta aprendo porte. Che sono difficili, maledettamente difficili da capire e da monetizzare. Non vogliamo che questa sia la chiusura di questo SJ dedicato a questa meravigliosa storia che è stata (e secondo noi, ancora potrebbe essere: ce lo auguriamo, con sincerità) l’agenzia Grazia Neri.

Forse il modo giusto per descrivere la sensazione che ho (e che forse tanti hanno) su questa situazione si trova nella canzone “Un senso” di Vasco Rossi:

Voglio trovare un senso a questa situazione
Anche se questa situazione un senso non ce l’ha

Voglio trovare un senso a questa condizione
Anche se questa condizione un senso non ce l’ha

Volevo dire che si possono fare tante teorie, avere tante opinioni, ma di fatto, questa situazione non ha senso, possiamo cercarlo, ma non ce l’ha. Abbiamo bisogno della qualità, abbiamo bisogno delle fotografie di qualità, abbiamo bisogno di persone e di strutture che investono e credono nella cultura, nell’innovazione, nella creatività, nel futuro. E tutto questo, all’interno di Grazia Neri c’era. Non saranno stati esenti da errori, ma il senso c’era, eccome. E non ha senso…