Nuova musica in copertina (purché non sia stonata)

Nuova musica in copertina (purché non sia stonata)

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In un percorso che ci deve portare in avanti, sono molti quelli che cercano di fare un passo indietro, di scendere da questo treno che sta sfrecciando senza controllo verso non si sa dove, oppure di dichiarare di andare “controcorrente”. E’ comprensibile questa titubanza: in giro si vede parecchia “roba” che vale davvero poco, e forse si cerca di ritrovare il valore che si dava alla nostra professione tempo fa. Al tempo stesso, il rischio è quello di rimanere a cullarsi in un passato che non esiste più. C’è un approccio corretto?

Facciamo degli esempi: al sabato, ogni tanto (quando le cose che sono state messe in disparte per essere affrontate “nel fine settimana” sono meno del solito) mi piace fare colazione prendendo le brioche fresche facendo una bella scarpinata (trovare le brioche buone ormai richiede molta pazienza e fortuna di abitare in una zona felice, oppure fare, come nel mio caso, circa 20 minuti a piedi, che comunque è salutare) e al ritorno prendo un quotidiano cartaceo, che di solito è corredato – il sabato – di un allegato, quindi mi permetto di osservare il mondo da un punto di vista che in molti casi potrebbe essere giudicato “retrò”. Brioche buona, caffè lungo lungo (sarebbe da dire “all’americana” ma essendo Nespresso è difficile definirlo tale) e giornale + allegato.

giorgia_copertina_io_donna

Oggi, il quotidiano era il Corriere della Sera, l’allegato era Io Donna. In copertina, Giorgia – la voce meravigliosa da 7 milioni di dischi venduti, che sta uscendo (guarda caso) con il suo nuovo album “Oronero” proprio settimana scorsa (il 28/10), dopo l’uscita del singolo dallo stesso titolo, che sta spopolando nelle radio opportunamente coinvolte nella promozione. Tutto è marketing, ormai non si lavora più sul valore del contenuto (di un articolo, di una intervista, di un servizio fotografico) se non c’è una marchetta da sottolineare. Quindi in questo mese si vedrà un sacco di articoli/copertine ed “esclusive” su Giorgia, poi sarà la volta di qualcun altro (peccato – per le riviste – che Mina/Celentano non sono persone che si prestano a queste cose, perché escono con un nuovo disco, forse le copertine quindi saranno tutte per Tiziano Ferro, che esce il 2 dicembre con il suo). Gli argomenti sono scontati, purtroppo anche l’approccio e il risultato.

Ma torniamo alla rivista in questione. In particolare, alla copertina (e all’articolo interno, pagina 62 e successive). Non è stata immediata l’impressione, ma poi la rivista è rimasta sul tavolo per un po’, e l’occhio tornava a guardarla, quella copertina; un’attrazione che non si riusciva a inquadrare. Alla fine, è esplosa, chiaramente:

Perché una rivista importante, con alle spalle una forza non indifferente, si accontenta di questa copertina?

Perché un fotografo, sinceramente bravo guardando il suo sito, sembra non avere cercato di fare qualcosa in “più”? L’articolo in copertina viene introdotto con la frase “Se fossi un uomo metterei parolacce nelle canzoni“, ma la foto di copertina sembra quasi uno di quegli scatti che si fanno per “provare”, per calibrare il colore, le luci, l’esposizione, e si dice al soggetto: non ti preoccupare, queste sono solo prove; sembra avere inquadrato Giorgia davanti all’armadio che prova il vestito e dice “come sto?” (e, sinceramente, con quel vestito stai male, Giorgia…). O, sembra, proprio così: contenuto, messaggio, immagine, intensità sembrano perdersi nel vuoto (magari, invece, tutto è stato studiato a tavolino con grande precisione…).

Perché (ci) sembra che tutto sia stato fatto con il freno a mano tirato? Non possiamo dire che il prodotto sia di “bassa qualità” (non lo è), ma di qualcosa che sembra frutto di un compromesso, di uno sforzo calcolato, misurato. Ci si accontenta? Va bene così? A noi sembra un’occasione persa, o forse quello che manca è un po’ di passione, chissà magari devastata da un modo di lavorare che spinge sempre più verso la velocità e non verso una ricerca di stile, di forma, di contenuto.

Non è certo una problematica che si percepisce solo su un prodotto o su una unica copertina, potremmo mostrare e segnalare centinaia di altri prodotti analoghi; cito questo non per astio o antipatia, semplicemente è capitato che – da utente, anzi: acquirente/cliente – mi sono sentito frustrato da quello che c’era sul mio tavolo della colazione, malgrado i soldi spesi (per la produzione del servizio), la relativa organizzazione che di sicuro non è stata semplice, gli interessi economici non indifferenti. Per fortuna che mi sono salvato con la brioche buona, ottenuta con la scarpinata.

kodak_2016_logo_before_after

Si potrebbe dire che “una volta” le copertine delle riviste erano più curate (qualcuno lo dirà e partirà la classica dissertazione sul come era tutto bello in passato). Il problema è che la frase e la discussione cadrebbe nello stantio. Non è vero: c’erano copertine orribili anche all’epoca, molto (molto) peggio di quella che pur stiamo segnalando come “non particolarmente felice”. La risposta non è nella ricerca del passato, questo facciamolo fare quando le strade verso il futuro sembrano chiuse, e allora si lavora sulla forza del passato. Lo sta facendo per esempio Kodak che ha rispolverato il vecchio logo, la “K” disegnata da Peter J. Oestreich nel 1971 (qui sopra a sinistra il vecchio che sembra nuovo logo, e a destra il nuovo, appena presentato, che richiama il passato); quel simbolo degli anni d’oro, per dare un segnale forte di una ricerca di valori di quello che “è stato” ed è il punto di partenza per promuovere prodotti che hanno nel “mood vintage” il loro (unico) valore aggiunto: smartphone con il nome Ektra e il conseguente look che richiama la celebra fotocamera degli anni ’40 (compresa custodia in pelle).
Kodak-ektra-custodia_vintage

Oppure si può cadere in quella che è la retorica che tanti (troppi) fotografi portano avanti, che racconta che per uscire dal magma delle foto “troppo veloci” e prive di valore, preferiscono andare controcorrente, all’opposto, come per esempio dichiara Gregory Crewdson in occasione della presentazione della sua ultima serie, “Cathedral of Pines”, in esposizione nelle sedi di Parigi e di Bruxelles della Galerie Daniel Templon. Sono anche scatti interessanti (lui è un grande fotografo e regista), ricchi di dettagli compositivi e di studio profondo, però questo eccesso di parole e di motivazioni raccontate sembrano poi alla fine solo dei rafforzativi di un contenuto che forse, da solo, non riesce poi a trasmettere quello che l’autore voleva raccontare. Sembrano solo dei metalinguaggi che si aggiungono ai linguaggi (la fotografia è ovviamente un linguaggio già completo, non ha e non avrebbe bisogno di spiegazioni e di elementi rafforzativi, che danno un motivo dell’esistenza di immagini per essere controcorrente a qualcosa che domina – o sembra dominare – la nostra cultura moderna).

 

Quello che pensiamo è che il sapore del passato è una buona azione di marketing, ma che non ci salverà per affrontare il futuro. E il futuro non può essere legato all’accettare compromessi. Se le riviste – con le loro copertine o i loro contenuti interni – non vorranno cercare di andare ben oltre a quello che viene considerato (magari dal management, ma anche l’ultimo della catena produttiva se accetta di produrre qualcosa che non sembra essere il meglio sarà comunque anch’esso responsabile delle conseguenze), allora poi non possiamo stupirci se poi i dati dicono che il settore dei giornali nel 2016 perderà l’8.7% dei proventi pubblicitari e ovviamente questo imporrà delle scelte che cadranno come una scure su tutti, ma in particolare sul prodotto e su chi lo realizza. Lo stesso vale per le mostre, per la comunicazione in generale, e – guardando al di sopra di tutto questo – i mestieri, le professioni, i mercati.

La crisi che stiamo vivendo non è crisi di soldi, ma di visione. Si cerca di andare avanti dimenticandoci le motivazioni che ci hanno spinti e portati fino a qui. Si risparmia sulle emozioni, sui valori, sul valore aggiunto, ed è proprio quello che manca per poter superare l’indifferenza. Abbiamo una quantità sconfinata di prodotti di qualità media, e quindi di nessuna qualità. Ci accontentiamo, e là fuori le persone (quelli che dovremmo attrarre) rimangono indifferenti, ci vedono trasparenti, quindi non ci vedono. E, pur cercando il risparmio a tutti i costi, spendiamo troppo per quello che otteniamo.

E, peggio ancora, non sarà la ricerca del passato che ci porterà da nessuna parte.

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